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La ricchezza dei Paesi poveri e la conoscenza dell’Altro

Di recente molti governi, organizzazioni internazionali e aziende attive a livello globale hanno considerato indispensabile coinvolgere nel loro lavoro le organizzazioni non governative (ONG). Eppure oggi queste stesse entità stanno diventando sempre più critiche nei confronti delle ONG al punto da metterne in discussione la loro legittimità. 

Le organizzazioni non governative sono diventate attrici chiave nella risposta alla povertà e alle relative sofferenze in vari paesi in via di sviluppo, dall’Africa al Sud America – e non solo in questi luoghi – promuovendo progetti volti a fornire assistenza sanitaria, educazione ambientale e istruzione. Allo stesso tempo le ONG rispondono anche delle logiche del profitto: poiché dipendono in larga misura dai finanziamenti, i progetti delle organizzazioni internazionali risentono delle preferenze dei donatori piuttosto che di quelli di quanti, presumibilmente, rappresentano. Questo significa che le attività da loro svolte nell’ambito della cooperazione internazionale non hanno alcun ruolo nella lotta alla povertà e l’ingiustizia, ad esempio? Siamo di fronte a un mondo, quello della cooperazione internazionale, dai connotati e tratti tipici della soft colonisation?

Sara Miante, interprete, cooperante e volontaria con diverse ONG in Perù e in Bolivia, un’idea ce l’ha. Mossa dal bisogno di “conoscere l’Altro”, dopo aver lavorato a Ginevra per una ONG ed esser stata a stretto contatto con la realtà delle Nazioni Unite, durante un Master in cooperazione e sviluppo internazionale a Londra, Sara decise di andare in America Latina. “Gli studi accademici mi stavano rivelando un mondo della cooperazione molto chiaroscuro, che metteva in discussione la visione idealizzata che avevo sperimentato a Ginevra presso le ONG e così cresceva in me la necessità di capire dove io mi sarei posizionata all’interno di questo chiaroscuro. Partii per vedere in prima persona quelle realtà che i libri descrivevano. Sono partita prima con il Servizio Civile Italiano, lavorando a vari progetti promossi da FOCSIV in Perù, Cuzco, e collaborando con Caritas. Un anno più tardi sono tornata in Bolivia con il programma sperimentale Corpi Civili di Pace – contingente di giovani il cui obiettivo è dimostrare che determinati conflitti possono essere risolti attraverso la non violenza – e ho affiancato Etta Projects (Fondazione boliviana-americana)”.

A quali progetti hai collaborato e che immagine ti sei fatta del mondo della cooperazione internazionale durante la tua permanenza sul luogo?

Ho lavorato a un progetto sulla sensibilizzazione ambientale rivolto a comunità rurali andine che, per quanto abbiano una relazione intima e profonda con la natura, non hanno consapevolezza dell’inquinamento ambientale e, ad esempio, non conoscono e non praticano il riciclo della plastica. Nella regione boliviana di Montero ho partecipato a vari progetti di natura ambientale-sanitario, che prevedevano la costruzione di bagni ecologici secchi nelle comunità autoctone, al fine di combattere defecazione all’aria aperta, l’implementazione di acqua potabile e la formazione di agenti di salute per permettere alle persone, che abitavano lontano dalle città con medici, di avere una sorta di punti di riferimento infermieristici. Sempre in Bolivia siamo stati nelle scuole per informare sul virus dell’HIV, una piaga in Bolivia, dove il 50% della popolazione ne è portatore, e promuovere atteggiamenti per prevenire la contrazione del virus. Un altro progetto al quale ho collaborato e che mi sta particolarmente a cuore, riguarda la prevenzione della violenza domestica. Ho potuto fare esperienza diretta delle ambiguità del mondo della cooperazione internazionale. Come nel caso in cui, a Cuzco in Perù, ho aiutato nella costruzione e distribuzione di cucine  migliorate per ridurre i focolai a cielo aperto, che utilizzano combustione della legna tra la popolazione indigena, la quale ancora cucina a cielo aperto. È stato il primo progetto che mi fu assegnato, in vero. E fu disturbante vedere come, quando si tornava a monitorare l’utilizzo delle cucine tra gli indigeni, questi ne facevano uso per appoggiarvici i vestiti. Si era infatti proceduto pensando solo alla costruzione di cucine – il progetto era nella fase finale, quando vi partecipai e bisognava far tornare i conti – ma non c’era stata alcuna vera attenzione alla comunicazione con le persone del posto, nello spiegare loro l’uso delle cucine e perché esse erano preferibili a quelle normalmente usate.

Però sei rimasta in Però, pur di fronte a questo mondo contraddittorio della cooperazione internazionale…

Sono partita per il Sud America perché volevo mettere in discussione le cose che avevano accettato in precedenza. Vedere l’operare delle ONG mi ha certo portato a chiedermi se davvero volessi (e potessi) appoggiare le dinamiche che mi si palesavano di fronte e che non condivido. Sono rimasta perché ho scelto di scendere a compromessi, trovando spazi di equilibrio interno – con me stessa- e con il mondo circostante: continuo a credere a tutto quello che fa la cooperazione di positivo consapevole che, come in tutte le cose, ci sono anche aspetti non condivisibili. Oggi soprattutto, a fronte della narrativa mediatica, è importante per me far capire che il mondo di passione e serietà che motiva il cooperante internazionale e i volontari.

Hai trovato difficile comunicare questi pensieri con il mondo che ti aspettava al tuo ritorno in Italia?

Per parecchi mesi dopo il mio rientro non sono stata in grado di ‘dire’ quello che avevo visto. E quello che ho visto è stato l’operare delle ONG ma anche la ricchezza delle popolazioni indigene, che mi hanno donato l’opportunità di ripensare alla scala valoriale dalla quale provenivo: quanto vale la connessione a Internet e il 5G se messa a confronto con un mondo che vive in grande simbiosi con la natura e gode, vivendo a 4000 metri di altezza, di aria e acqua pulita? Cogliere la portata e profondità della mia esperienza non è stato immediato. Anche perché mi trovavo confrontata, una volta tornata in Italia, con domande che sminuivano la mia percezione del mondo in cui mi ero immersa. Spesso mi veniva chiesto del cibo in Bolivia e del tempo. Io invece avrei voluto raccontare della ricchezza oppure della violenza domestica ancora molto diffusa e che avevo cercato di combattere con i progetti ai quali ho partecipato. Qualcuno mi diceva: sei giovane, vedrai che questo idealismo poi passa. Questo è forse il commento più difficile da digerire. 

Parlando di giovani, oggi cresce il numero di ragazzi e ragazze impegnate nel sociale, per l’ambiente e contro le disuguaglianze. Fridays for future e Black Lives Matter sono solo due delle più recenti situazioni nelle quali si è resa evidente la partecipazione dei giovani. Ideologici e naïve?

Da un lato, noi giovani abbiamo un vantaggio: la forza di sognare. E senza sognare, non si va da nessuna parte – a mio avviso. Detto questo, non siamo impreparati o sprovveduti. Parlo della mia esperienza personale: quando sono partita per il Sud America, avevo alle spalle anni di studi linguistici, conoscevo la lingua del luogo, lo spagnolo; avevo un solido background accademico; sul posto affiancavo personale del luogo che conosceva nel profondo la realtà locale. 

Hai accennato ai tuoi studi di interpretariato: i tuoi interessi linguistici e il saper parlare la lingua del luogo ti hanno aiutata a sentirti più facilmente accettata nelle comunità dove lavoravi?

Certamente potermi esprimere fluentemente in spagnolo in certe occasioni è stato vantaggioso. Però questa lingua europea non è quella parlata dagli autoctoni in Perù e in Bolivia. Per questo la comunicazione tra noi passava attraverso forme non verbali, come la condivisione di un pasto insieme. Ho però anche cercato di imparare alcune parole del linguaggio in uso nei luoghi indigeni. D’altra parte, il mio interesse per la lingua, anzi le lingue, è largamente corresponsabile del mio avvicinamento ad ‘altri’ mondi. Sono sempre stata molto appassionata di culture e lingue straniere, mi ha sempre incuriosito come fanno ‘gli altri’ a capirsi, generando in me il desiderio di capirli. Trovandomi in contesti ‘altri’, ho potuto fare esperienza concreta di questa alterità linguistica e culturale.

Essere donna e provenire dal mondo Occidentale ha mai reso difficile la tua accettazione tra le popolazioni indigene?

Il mio genere non ha in alcun modo costituito motivo di diffidenza. Per quanto riguarda il mio essere bianca, occidentale, europeao italiana: queste classificazioni hanno costituito più un problema per me che per le popolazioni con le quali mi confrontavo. Sono stata io, all’inizio, a domandarmi con quale ‘diritto’, in nome di che cosa, io dal mio mondo ‘privilegiato’ andavo da ‘loro’. Poi però uno deve scendere a patti. Non è colpa mia se sono nata dove sono nata. Per gli indigeni, il mio essere italiana era in realtà fonte di curiosità. Sai, c’è chi mi ha chiesto se fossi arrivata in bus dall’Italia! Ho però sempre rifuggito atteggiamenti di superiorità nei confronti delle popolazioni del luogo, operando nel profondo rispetto degli altri. Il risultato è stata accettazione e molto di più, direi: per tanti versi, quello che ho ricevuto è maggiore di quello che ho potuto dare. 

Ora ti trovi in Italia a causa del coronavirus: rimani in contatto con il mondo che hai lasciato?

Dallo scorso dicembre, assieme a un gruppo di ragazzi che, come me, hanno fatto esperienze di volontariato e nel campo della cooperazione internazionale, abbiamo fondato in Italia NINA APS, un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di cooperazione internazionale, inclusione sociale e sviluppo rurale.  In kichwa, una delle lingue indigene dell’Ecuador, NINA significa fuoco e fiamma  ma anche raccontare, comunicare. Proprio in questo binomio risiede la vocazione della nostra associazione: dare voce al fuoco che risiede nelle donne provenienti da ogni parte del mondo. Collaboriamo con le donne di tutto il mondo con lo sguardo rivolto al sostegno delle loro famiglie Ogni passo che facciamo dà potere alle donne, generando una società inclusiva e produttiva. 

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