La Roma di Pasolini

La città di adozione, amata e terribile, del poeta-regista

di Paolo Speranza

Dico sempre a tutti, quando mi capita, che Roma è la città più bella del mondo. Delle città che conosco, è quella dove preferisco vivere: anzi, ormai, non concepisco di vivere altrove. Gli incubi peggiori sono quelli in cui sogno di dover lasciare Roma per tornare nell’Italia del nord”.

Questa esplicita dichiarazione d’amore di Pasolini per la capitale è affidata alle colonne del settimanale “Rotosei”, il 12 aprile 1957, nella rubrica “L’Italia degli scrittori”.

Il titolo del suo intervento, Roma malandrina, è solo in apparenza stridente: della città lo scrittore conosce e ama soprattutto la periferia, abitata da un sottoproletariato che vive di espedienti e spesso ai limiti della legalità, ma genuino nella sua disperata vitalità e ancora incontaminato dal consumismo borghese. È l’altra faccia della Roma allora conosciuta (papalina, ministeriale, mondana), una Roma inconfessabile e invisibile all’opinione pubblica, di cui Pasolini consegnerà un ritratto poetico e indimenticabile nei romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), “scandalosi” per il coraggio e la novità dei temi trattati ed il linguaggio antiletterario, e nei primi film da regista, la cosiddetta “trilogia romana”: Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e l’episodio La ricotta nel film collettivo RoGoPaG (1963).

È la Roma povera e marginale che lo ha accolto al suo arrivo, il 28 gennaio del 1950, insieme all’amatissima madre Susanna e all’insaputa del padre (che li raggiungerà l’anno successivo), in fuga dal Friuli, dove l’anno prima Pasolini aveva perso il lavoro di maestro elementare e la reputazione, nonchè la tessera del Pci, per un’accusa di corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico.

Pasolini con Anna Magnani

L’approccio alla periferia – ha scritto l’ex assessore alla Cultura Gianni Borgna, che conobbe Pasolini e lo ricorda nel libro Un intellettuale in borgata (2015), di Enzo De Camillis – Pasolini non lo vive come lo poteva vivere nella Parigi dell’Ottocento Emile Zola. Zola frequentava le prostitute per poterle descrivere, per amore di naturalismo. Pasolini frequentava prostitute, ladri, magnaccia, poveracci perché ci viveva, viveva fra loro, in quanto era andato a vivere, povero fra i poveri, in questa borgata”.

Nella borgata dove si stabilirà per alcuni anni, a Ponte Mammolo, in via Giovanni Tagliere numero 3 (all’angolo con il carcere di Rebibbia), Pasolini scopre un’immediata empatia con quella comunità di precari e reietti, privi di inibizioni e di ogni forma di perbenismo, che costituirà per oltre un decennio la sua principale fonte di ispirazione poetica: “Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei “parlanti” fatti parlare apposta”, confida nell’aprile del ’58 alla rivista “Città Aperta” in un articolo significativamente intitolato La mia periferia. Il mese successivo, sul settimanale comunista “Vie nuove”, Pasolini firma Viaggio a Roma e dintorni,un reportage in quattro puntate sulla condizione di quelle borgate che ha narrato nel ’55 in Ragazzi di vita, il romanzo che gli procurò un nuovo processo per oscenità (con assoluzione finale) e la consacrazione letteraria.

In questa “discesa agli inferi” nella capitale gli fa da Virgilio un “pittoretto” – come lo definisce – conosciuto nel 1951, Sergio Citti, futuro regista, che di Pasolini diventa subito amico e, dirà il poeta, “lessico vivente”. Questa “collaborazione ai dialoghi” sarà sancita anche nei titoli di testa del primo film da regista di Pasolini, Accattone (1961), dove il ruolo del protagonista è affidato al fratello minore di Citti, Franco.

Lo scenario del film è ancora una volta “il mondo delle borgate, accampato attorno alla città, in attesa eterna di entrarvi, respinto nel suo limbo dalle cose, dalla loro violenza ed offesa, e da se stesso, dalla sua estrema debolezza”, scrive Carlo Levi presentando Accattone, che alla Mostra di Venezia è accolto dalla critica come il film italiano più originale e coraggioso, riscuotendo anche un successo di pubblico. Una svolta per lo scrittore, che alla vigilia (il 16 luglio) era stato definito su “ABC”, in un articolo agrodolce di Gianfranco Venè, “il De Amicis delle borgate”: un mondo che Pasolini, dopo il film successivo Mamma Roma (1962), anch’esso applaudito a Venezia, si apprestava ad abbandonare sul piano creativo: “È un addio pieno di tristezza, il mio, ma è necessario”, dichiara al settimanale “Tempo” del 12 maggio 1962. Lo stesso regista presenta il film come la prosecuzione ideale di Accattone, affidando stavolta ad un personaggio femminile (interpretato dall’attrice italiana più famosa nel mondo e più romana per antonomasia, Anna Magnani) il tentativo di riscatto sociale che non era riuscito al “ragazzo di vita” del film precedente, ma con esiti altrettanto tragici. Nello stesso anno, Franco Citti fu il protagonista del film Una vita violenta, diretto da Paolo Heusch e Brunello Rondi, che la critica considerò generalmente inferiore al libro e soprattutto ad Accattone.

L’addio alle borgate ventilato da Pasolini non si concretizzerà in maniera immediata e assoluta. La periferia romana è ancora il luogo fisico e ideale de La ricotta (1963), segnato visivamente dalla potente metafora di un sottoproletario romano, Stracci, posto sulla croce come Cristo, e di Uccellacci e uccellini (1966), presentato al Festival di Cannes, dove al fianco di Totò ha un ruolo di primo piano Ninetto Davoli, il ragazzo di periferia all’epoca compagno di vita di Pasolini.

La coppia torna l’anno successivo in La terra vista dalla luna, episodio del film collettivo Le streghe, ambientato in una surreale bidonville che ha evidenti richiami alle borgate capitoline, e nel 1969 Davoli/Riccetto (il nome del protagonista di Ragazzi di vita), sarà il protagonista di La sequenza del fiore di carta, episodio del film collettivo Amore e rabbia, presentato nel ’70 al Festival di Berlino: una metafora cinematografica sulla “colpevole innocenza” di un sottoproletariato che si sta gradualmente integrando nella società capitalistica, senza tuttavia riuscirne a percepire la carica di violenza e di ingiustizia sociale.

Resta sempre il legame particolare e indissolubile tra Pasolini e Roma, un legame che si protrarrà oltre la tragica fine del Poeta. 

Tra i momenti più alti il funerale a Campo de’ Fiori la sera del 5 novembre 1975, quando per l’ultimo saluto un’intera città sembrò trattenere il fiato.

Da ricordare infine le numerose e partecipate manifestazioni organizzate a Roma in memoria di Pasolini e della sua opera, dall’evento Per conoscere Pasolini, svoltosi nel 1978 al Teatro Tenda, alla grande mostra Pasolini/Roma del 2014 al Palazzo delle Esposizioni.

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