La ‘SHRINKFLATION’: stesso prezzo, ma la quantità è minore

I consumatori e l’illusione del risparmio

Con la crisi economica congiunturale al galoppo e l’imperversare del conflitto in Ucraina, le spese di produzione e i prezzi dei prodotti continuano a schizzare alle stelle. Parallelamente, è crollato il potere di acquisto della moneta. A fronte di ciò, può accadere di andare al supermercato e nei negozi e comprare prodotti allo stesso costo (o con un leggero rincaro) rispetto a prima, a fronte, però, di una confezione più piccola o, ancora, di qualche unità in meno al suo interno. L’obiettivo, per le aziende, è recuperare margini di profitto e non far percepire al cliente differenze evidenti rispetto a prima. È il cosiddetto fenomeno della ‘shrinkflation’, dalla crasi di due termini: ‘shrink’, che in inglese significa ‘restringere’ e ‘inflation’, ‘inflazione’, col significato, pertanto, di ‘contenimento dell’inflazione’.

Quello della ‘shrinkflation’ è un fenomeno che si sta verificando da tempo sia in Svizzera, sia in Italia (seppur con esiti diversi, come vedremo) così come in tanti altri paesi stranieri. Tra i primi a lanciare l’allarme figurano, per esempio, i tecnici e gli economisti dell’Istituto di statistica britannico (Ons, Office for National Statistics). In base alle loro indagini, negli ultimi sei anni in circa 2.500 casi le confezioni di prodotti (soprattutto alimentari e per l’igiene della casa) sono state ridimensionate in peso e quantità. Ha spiegato al ‘Philadelphia Enquirer’ l’analista finanziario Chris Motola: “È un modo per nascondere l’inflazione, e lo vediamo applicato principalmente al food & beverage, o ad altri prodotti che hanno un turnover frequente”. A fronte del notevole rincaro delle materie prime, le strade che le aziende hanno davanti sono principalmente tre: aumentare i prezzi a discapito delle tasche dei consumatori, produrre usando ingredienti più economici (e spesso di una qualità inferiore) oppure rimpicciolire scatole, barattoli e altri contenitori riempiendoli di una minore quantità di prodotto. Nell’epoca post Covid ritocchi, tasse e aumenti extra denominati in vario modo sono fioccati dalla sera alla mattina. Nella Penisola mediterranea, per esempio, già da qualche mese sono comparsi cartelli e avvisi, soprattutto nei piccoli esercizi, che sottolineano, quasi giustificandosi, un piccolo aumento di prezzo – per esempio 10 cent sul caffè – a fronte della situazione attuale. Nel caso della ‘shrinkflation’, però, siamo da tutt’altra parte. Uno degli esempi più significativi è quello della Coca-Cola. Già nel 2019, in Svizzera, il produttore di bibite gassate ha ridotto la quantità di bevanda per bottiglia, da mezzo litro a 4,5 decilitri, senza alcun adeguamento del prezzo. Il produttore ha spiegato che, dietro una simile scelta, c’erano ragioni salutistiche. Ma forse non solo quelle. E molti consumatori hanno storto il naso. Tanto che Selecta, gruppo specializzato nei distributori automatici di snack e bibite, ha ritirato parecchia merce di quel genere dal mercato. Consideriamo, poi, un genere tipicamente italiano diffuso in tutto il mondo: la maggior parte della pasta a livello industriale è prodotta con il grano tenero, materia prima di cui l’Ucraina è tra i principali produttori al mondo e che oggi scarseggia su scala internazionale. Ebbene, le confezioni sono rimaste le stesse, così come, per la maggior parte, i prezzi, ma il peso netto all’interno è diminuito. E ancora, meno patatine nel sacchetto o qualche biscotto tolto dal pacco: il principio a monte è sempre lo stesso. Uno stratagemma per camuffare l’inflazione, apparentemente inesistente, ma che, invece, si fa sentire eccome.

Non solo cibo e bevande
Il settore agroalimentare resta la punta dell’iceberg della ‘shrinkflation’, ma la rimodulazione dei prezzi è stata estesa anche a detersivi, con flaconi pieni solo fino a tre quarti, bagnoschiuma, lozioni, creme, dentifrici e persino rotoli di carta per la casa e per l’igiene, spesso rimpiccioliti in proporzione all’aumentare del diametro del tubo interno. Per non parlare dei servizi o della ristorazione, come ha sottolineato anche il ‘Financial Times’. Rivedere i menu nei ristoranti, ridurre le porzioni, eliminare dalla preparazione ingredienti costosi sono tutte accortezze assunte per risparmiare a livello produttivo. Per arginare i rincari, inoltre, dopo due anni di afflussi turistici pressoché azzerati dalla pandemia, gli hotel, a partire dalle grandi catene come Marriot o Hilton, hanno studiato offerte differenziate: a prezzo più alto con tutti i servizi di sempre, come la pulizia giornaliera della stanza, a prezzo ridotto rinunciando a qualche comfort, come il cambio quotidiano della biancheria. Le colazioni a buffet, sparite durante l’emergenza Covid per garantire il distanziamento, sono tornate solo a singhiozzo, ma stavolta per non incorrere in sprechi e costi troppo alti.

Aziende caute in Svizzera

Secondo analisi di mercato da parte di esperti elvetici, finora la contrazione dell’inflazione nei Cantoni è stata osservata principalmente all’estero, in particolare negli Stati Uniti. Certo, anche in Svizzera i prezzi stanno aumentando, ma in misura inferiore a causa della forza del franco locale. Inoltre, il gasolio da riscaldamento, il gas naturale e il carburante rappresentano attualmente solo il 3% circa del carrello. Questa sarebbe la ragione per cui nelle tasche dei singoli consumatori c’è più budget mensile disponibile per generi alimentari e prodotti di utilizzo quotidiano alla fine del mese, a differenza di quel che accade negli Usa, dove le persone – soprattutto coloro che non percepiscono uno stipendio in modo continuativo – avvertono l’aumento dei prezzi in modo più impattante e hanno meno risparmi da parte. Inoltre, va aggiunto, i consumatori elvetici sono più sensibili agli aumenti di prezzo nascosti, attenti e consapevoli. Osservano giustamente alcuni: ma come, un marchio deve far fronte ai rincari delle materie prime, ma investe comunque, e non poco, in nuovi macchinari per realizzare confezioni rimpicciolite ad hoc? Oltretutto succede che il malcontento dei consumatori convinca poi i brand a fare un passo indietro e a ripristinare i formati originari. Con inevitabile spreco di soldi, tempo ed energie. Insomma, le perdite economiche e i danni legati all’immagine che graverebbero sull’azienda sarebbero maggiori dei benefici. Pertanto, anche in considerazione di simili aspetti, più che ricorrere al trucco della ‘shrinkflation’, in caso di necessità gran parte delle imprese elvetiche preferisce alzare i prezzi, comunicando la decisione in modo trasparente.

Associazioni in rivolta in Italia

In Italia, solo per fare un esempio relativamente recente, durante il periodo di Pasqua il peso di alcune colombe è passato da un chilo a 750 grammi, mantenendo invariati il prezzo e le confezioni. Per questo e altri episodi le principali associazioni dei consumatori sono scese in campo per prendere posizione rispetto al fenomeno più ampio. In testa c’è il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e consumatori), che ha presentato una denuncia all’Antitrust (Autorità garante della concorrenza e del mercato) e a 104 procure della Repubblica italiana per sollecitare indagini che possano verificare se questa prassi sia o meno legale e se si possa configurare anche il reato di truffa o, comunque, di pratica commercialmente scorretta, anche se il fenomeno non è certo nuovo. Secondo l’Istat (Istituto Nazionale di Statistica), dal 2012 al 2017 i casi analoghi registrati in mercati, rivendite e supermercati sono stati 7.306. Nello stesso periodo, di 4.983 prodotti è stato modificato non solo il confezionamento ma anche il prezzo. Codacons, inoltre, ha chiesto inoltre all’Autorità per la concorrenza e alle magistrature locali di audire il presidente dell’Istat, nonché Mise (Ministero dello Sviluppo Economico), Mef (Ministero dell’Economia e delle Finanze), Federalimentare (Federazione Italiana dell’Industria Alimentare) e le principali multinazionali tricolori al fine di acquisire elementi circa il fenomeno in questione. Dal canto suo l’Unione nazionale consumatori ha fatto notare che, rilevazioni Istat a parte, nello Stivale oggi manca un monitoraggio costante del fenomeno, proponendo di mettere a sistema controlli periodici sulle dimensioni (confezione e contenuto) e sui prezzi dei prodotti e segnalando l’escalation di questa prassi alla succitata Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

IL CASO DI TOBLERONE IN UK 

Sul fronte della ‘shrinkflation’ c’era già stato, in passato, qualche precedente emblematico. Nel 2016 nel Regno Unito la Mondelēz International, che aveva da poco acquistato Toblerone, il marchio svizzero delle note barrette di cioccolato dall’iconica forma piramidale, ha dovuto affrontare una tempesta social di critiche, ma soprattutto una causa legale, per aver aumentato la distanza tra le caratteristiche “punte” delle barrette stesse. In questo modo erano diminuiti pesi e formati del prodotto, per cercare di contenere i costi di produzione, aumentati notevolmente dopo la Brexit. Alla fine, per Toblerone, il gigante americano fece marcia indietro e tornò alla versione originaria delle barrette.

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