La solitudine di una caduta

Nella vasta colonia del nostro essere c’è una folla di molte specie che pensa e sente in modo diverso.
Fernando Pessoa, Libro dell’inquietudine, annotazione del 30 dicembre 1932

 

Alle 9:38, il tram è semi-vuoto. Ci sono i ritardatari come me, quelli che vanno a un appuntamento, e gli altri.

Perciò il tonfo fa girare solo tre teste, e per un po’ nessuna di loro riesce a identificarne l’origine.

Dalla mia postazione vedo un piede sdraiato in diagonale dietro l’ultima fila di sedili. Siamo in tre, gli stessi delle teste, ad alzarci di scatto, ma io sono più lontana e loro mi precedono.

La signorina con i capelli lunghi, che ha modi sbrigativi ma non scortesi, come quelli di un’esperta infermiera, afferra il braccio sinistro all’origine del tonfo, a me ancora invisibile, e lo aiuta ad alzarsi.

Una testa di seta candida pettinata con cura emerge da dietro l’ultimo sedile della carrozza. Il signore è pulito e ha i vestiti in ordine; scarto altre cause possibili per la caduta mentre i miei occhi trovano il pavimento bagnato del tram e, del signore, le suole nere lisce, inadatte a quel fondo scivoloso. L’uomo non è ferito, solo contuso, ma visibilmente spaventato. Non indossa la mascherina, che forse ha tolto dopo la caduta, o forse non aveva, o che forse è rimasta a terra; ma il soccorso ha altre regole e nessuno ci pensa. Noi tre accanto a lui siamo solo occhi; nasi e bocche indulgenti nascoste da rettangoli azzurri.

Le porte si aprono e l’infermiera aiuta l’uomo a scendere i tre scalini alti, troppo alti anche se non sei caduto. Gli chiede in svizzero tedesco se va tutto bene, e naturalmente lui risponde sì – gli anziani dicono sempre sì, che non si sono fatti male. E a volte anche noi. Perché l’adrenalina e la vergogna hanno la meglio, e perché cadere con testimoni fa più male.

Io che sono caduta tante volte, ginocchia sbucciate e pantaloni rotti, sull’asfalto e sulle rotaie, per strada e alla stazione, io quasi non mi vergogno più. Ma quando nessuno si ferma e tutti mi superano come un ostacolo inatteso, lì sento male.

Ho sempre con me salviettine disinfettanti e cerotti – colorati, con volpi londinesi ed elefanti rosa dalla proboscide ammaccata, e alcuni cerotti bianchi anonimi, per quelli che non credono nel potere guaritore di un sorriso a colori. I miei cerotti hanno fermato lacrime e portato alla luce ferite immaginarie in piccoli testimoni della caduta altrui; un uomo che era inciampato su cespugli dietro i quali aveva dormito si era tranquillizzato mentre le mie mani pulivano il graffio sulla sua fronte e mi aveva detto solo questo, prima di tornare a essere invisibile: You are lady. 

Ma l’infermiera è più veloce, e lui ha detto che sì, che va tutto bene, e io tentenno all’idea di scendere con lui, perché essere soli dopo una caduta è orribile, e vuoi piangere anche se non fa male. Le porte si chiudono e io guardo lui seduto sulla banchina di attesa strofinarsi il ginocchio destro, non la testa.

Mentre il tram si allontana, io voglio scendere. Sento l’uomo tremare, lo vedo attraversare la strada con incertezza, non telefonare a casa, in fondo non è successo niente.

E quando tre fermate dopo arriva il mio turno di scendere, io penso che ho dato priorità alla riunione che devo preparare, e che un po’ non mi riconosco – perché io sono quella che scende e che si accerta che tu stia bene quando le tue parole non lo dicono più, e pazienza se sono in ritardo. Siamo gli angeli custodi l’uno dell’altro, penso sempre.

Luglio è stato il Minority Mental Health Awareness Month, mese della consapevolezza per la salute mentale delle minoranze. A ricordare come nessuno sia immune ai disturbi della salute mentale, ma anche come ogni forma di discriminazione sia un potente e feroce alleato delle vulnerabilità che essi creano.

Un amico siriano a cui avevo chiesto se non trovasse grave l’assenza di supporto psicologico nel percorso dell’accoglienza mi aveva derisa. Non abbiamo cibo, viviamo in tende, sei ridicola.

Penso alla differenza che può fare il non essere lasciati soli dopo una caduta. Entro nel palazzo del mio ufficio con l’anima pesante.  

 

Nessuno è immune ai disturbi della salute mentale, e ogni forma di discriminazione crea ulteriore vulnerabilità. (Immagine di Simona Bonardi: Pireo, Porto di Atene, 2016)
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