La Svizzera e la lotta al coronavirus

Per alcune settimane abbiamo creduto che la crisi del coronavirus non avrebbe investito la Svizzera con l’impeto visto in altre parti del mondo, che non sarebbe deflagrata con veemenza obbligando il Governo ad assumere misure drastiche come in Italia. Lo abbiamo pensato, con eccessivo ottimismo, contando sui comportamenti della gente, sulla razionalità dei “messaggi” lanciati dalle Istituzioni e considerando l’alta fiducia che riponiamo nel nostro sistema sanitario. Le misure decise venerdì scorso dal Consiglio federale, comunicate in una conferenza stampa ad alta diffusione televisiva, ci hanno aperto gli occhi e fatto capire che anche in Svizzera la normalità era finita, che il virus non ha “confini” e che probabilmente si è temporeggiato troppo nell’affrontare la crisi con maggiore determinazione, come stava accadendo in Italia, in Francia, Spagna e persino negli USA. Svizzera accusata da autorevoli fonti scientifiche anche di un insufficiente numero di test (tampone) a fronte dell’aumento dei contagi.

Sabato scorso il Governo del Cantone Ticino ha emanato misure restrittive severissime per contrastare il Covid-19, che finora ha contagiato oltre 300 persone e causato il decesso di 6 persone; misure che impongono ai cittadini pesanti sacrifici, stravolgono schemi di vita consolidati e congelano le relazioni sociali distanziandole. Ma il blocco è l’unico modo per combattere la diffusione del contagio in attesa di capire come si evolverà e, soprattutto, quanto durerà.

Le misure adottate dal Consiglio federale e dai Cantoni – in particolare la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado – hanno dato vita ad una serie di problemi che soltanto qualche mese fa non categorizzavamo tra quelle ipotizzabili. Ed anche a comportamenti irrazionali come l’assalto ai supermercati – sui social è diventato virale l’incetta di carta igienica – che almeno in questo caso rendono la Svizzera simile agli altri Paesi, che spesso abbiamo deriso: siamo tutti comuni mortali.

Ma le restrizioni hanno fatto riscoprire anche la grande carica di solidarietà che sprigiona la società: dai cosiddetti “gruppi di aiuto” nel quartiere a sostegno degli anziani, in special modo per la spesa o acquisto di medicinali, al bisogno di assistenza e cura dei bambini fermi a casa. Bisogna soprattutto assistere i bambini dei genitori che lavorano negli ospedali, nelle case per anziani, negli Spitex e, in generale, nel settore di assistenza alle persone bisognose di cure: in questo momento tanto importante per le funzioni che svolgono, devono far fronte alla chiusura di scuole, asili e nidi. Ma proprio dalla risposta solidale stanno emergendo soluzioni alternative per aiutarli a superare le difficoltà.

Intanto, ci si attrezza anche con il ricorso alle tecnologie odierne, i cosiddetti “Gruppi WhatsApp” di quartiere che tengono viva la rete, alimentano l’informazione, raccolgono le richieste di sostegno e spesso aiutano a sconfiggere la solitudine E si moltiplicano le piattaforme internet, ad esempio www.hilf-jetz.ch, per lo scambio di informazioni o per chiedere aiuto nella propria comunità di quartiere. Tante persone, che abitualmente testimoniano il proprio impegno nelle parrocchie, nelle associazioni, nei movimenti e nei partiti, stanno virando in questi giorni sulle necessità innescate dal coronavirus, per portare aiuto e dare forza alla speranza.

L’appello alla solidarietà lanciato dalla Presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga trova, in tale contesto, un campo fertile e già in parte arato. Ed è tornato anche “l’obsoleto” volantino, con i numeri di telefono delle persone che nel quartiere sono a disposizione per soccorrere chi ne ha bisogno, utile anzitutto alle persone anziane non raggiungibili con le nuove tecnologie.

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Tanti italiani in Svizzera hanno raddoppiato in queste settimane i contatti telefonici con parenti e amici per sapere e avere notizie. Le loro testimonianze ci consegnano un quadro desolante: strade e piazze desertificate, un silenzio assordante laddove prima regnava il rumore e il dinamismo caotico; e il dramma delle famiglie che hanno perso un loro caro, colpito dal virus, e devono celebrare le esequie funebri nel modo più sbrigativo possibile, senza messa, con un rito per la benedizione della bara, a cui assistono soltanto i familiari autorizzati.

Dopo lo sbandamento delle prime settimane emerge anche una grande mobilitazione e forza d’animo, in cui si distingue l’impegno incredibile di medici e infermieri che curano gli ammalati, spesso in condizioni di grave disagio strutturale e strumentale, con orari spaventosi. Lo rimarchiamo con forza, anche a fronte delle idiozie diffuse da un incallito frequentatore degli studi televisivi come Vittorio Sgarbi o dai troppi irresponsabili, che sui social alimentano le teorie complottiste o continuano a parlare di semplice influenza. Non si deve assolutamente sottovalutare il problema e la pericolosità di quanto sta accadendo! Tra l’altro, per ora, non conosciamo sufficientemente il Covid-19 e la sua capacità di evoluzione. Il lockdown dell’epidemia è dunque il primo obiettivo da raggiungere e ognuno deve fare la propria parte con i comportamenti richiesti.

“Nulla sarà più come prima”, si disse all’indomani degli attentati di al-Qā‛ida dell’11 settembre 2001 negli USA. Ne derivarono guerre sanguinose con una crescita esponenziale del ricorso alle tecnologie. Questo secolo ci ha poi “regalato” Aviaria, Ebola e SARS. Ed anche l’eruzione del vulcano islandese dal nome impronunciabile (Eyjafjallajökull) che nel 2010 bloccò il traffico aereo di mezza Europa. Il Coronavirus è il tempo della responsabilità collettiva, non della follia al potere: Boris Johson pensa oscenamente che i 2/3 degli inglesi dovranno contrarre il Covid-19 per sviluppare la cosiddetta “immunità di gregge”, a costo di diecine di migliaia di vittime.

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