La tragica fine dei registi Emanuele Caracciolo e Gerardo De Angelis. Da Cinecittà alle Ardeatine

di Paolo Speranza

Foto: la locandina del film “Troppo tardi ti ho conosciuta”

Chissà se quel tragico 24 marzo del 1944 Emanuele Caracciolo e Gerardo De Angelis ebbero modo di incrociare gli sguardi, nella cava delle Ardeatine, prima di essere giustiziati insieme ad altri 332 cittadini romani dalla Gestapo agli ordini di Kappler.

Per entrambi fu l’ultima tappa di una “via crucis” che da mesi stavano condividendo in quella “città aperta” dove si erano trasferiti anni prima, dal Sud, per vivere un sogno: fare il cinema, da protagonisti. E ci stavano riuscendo, prima di diventare gli unici due martiri di Cinecittà della furia nazista.

Due storie parallele, un solo finale tragico.

Sia Caracciolo che De Angelis pagarono con la vita la coraggiosa scelta antifascista, militando nella Resistenza clandestina. Scoperti dalla Gestapo, in luoghi diversi ma con modalità analoghe (una delazione), passarono entrambi per Regina Coeli e per la famigerata casa degli orrori di via Tasso, la stessa dove Luchino Visconti si era salvato in maniera fortunosa (per intercessione dell’attrice Maria Denis sul capo dei torturatori Pietro Koch) e che avrebbe ispirato una sequenza memorabile di Roma città aperta di Roberto Rossellini. Come Manfredi, l’ingegnere comunista del film, anche i due giovani cineasti si rifiutarono di rivelare i nomi dei compagni: la conseguenza del loro eroismo fu la condanna a morte.

Per un paradosso crudele, Gerardo De Angelis di Rossellini era stato collaboratore per L’invasore, un film in costume interrotto per la guerra e che della guerra civile portava le stimmate: l’antifascista Rossellini sceneggiatore, e fra i protagonisti Miria di San Servolo, nome d’arte della sorella di Claretta Petacci, e Osvaldo Valenti, attore di fama, poi fucilato dai partigiani insieme all’attrice Luisa Ferida per la loro militanza nella Repubblica di Salò e nella X Mas del “principe nero” Junio Valerio Borghese.

A Gerardo De Angelis, venuto a Roma nel ’35 dalla nativa Taurasi, in Irpinia, mancava davvero poco per l’esordio da regista e la consacrazione come autore, dopo una lunga gavetta al doppiaggio e nella produzione con la Gedea Film. Nel 1940 aveva collaborato con uno dei più noti registi italiani, Goffredo Alessandrini, in due film: l’ambizioso Caravaggio, interpretato dal divo nazionale Amedeo Nazzari; e Il ponte di vetro, di cui scrisse il soggetto e la sceneggiatura, con Isa Pola, Rossano Brazzi e una giovanissima Regina Bianchi (futura, straordinaria interprete del teatro eduardiano), della quale si invaghì Alessandrini, lasciando per lei la consorte Anna Magnani.

Nello stesso 1940, intanto, Emanuele Caracciolo, già aiuto regista di Carmine Gallone, era riuscito a dirigere il suo primo film, Troppo tardi t’ho conosciuta, che incuriosì la critica per lo stile sperimentale e la vena grottesca con cui rappresentava il mondo della lirica. Fra gli interpreti, accanto al protagonista, il tenore Franco Lo Giudice, spicca in una parte minore un giovane e vivace Dino De Laurentiis, conosciuto ai corsi del Centro Sperimentale di Cinematografia, che il futuro produttore e Caracciolo avevano frequentato con Alida Valli, Pietro Germi, Luigi Zampa.

Una scena de “Il ponte di vetro”

In quel suo unico lungometraggio confluivano gli apporti della vasta e impetuosa formazione culturale di Caracciolo, definito da Filippo Tommaso Marinetti “il futurista veloce”, che è anche il titolo dell’unica monografia sul regista, edita da CinemaSud, in cui lo storico del cinema Salvatore Iorio ricostruisce con documenti inediti la vasta attività di cineasta, artista e giornalista e la biografia dalla nativa Gallipoli a Napoli, dove studiò e visse a lungo, diventando un protagonista della vita culturale.

Fu Caracciolo, nel 1932, a fondare con il pittore Carlo Cocchia il primo “Gruppo Futurista Napoletano” e a dirigerne la rivista, “Elettroni”.  A Napoli militò anche nel Cineguf e strinse amicizia con due futuri protagonisti della cultura italiana: il pittore Paolo Ricci, fondatore dell’Unione Distruttivisti Attivisti, e lo scrittore Carlo Bernari.

Trasferitosi nel ‘37 a Roma, Caracciolo prese parte come figurante e poi sceneggiatore e assistente alla regia a diversi film importanti, tra i quali Il fu Mattia Pascal diretto da Pierre Chenal. Quando nell’aprile del ’42 si sposa con Lidia Pratesi, e nel dicembre nasce Teresa, per Caracciolo sembra aprirsi un futuro radioso sul piano artistico e umano, come per Gerardo De Angelis, più grande di lui e già padre di quattro figli.

L’epilogo di queste due vite da film sembra scritto dalla stessa mano. Solo un mese dopo l’eccidio, con una fredda comunicazione del comando tedesco (un biglietto che, accanto ai nomi, aggiungeva semplicemente “Gestorben”: morto), i familiari ritroveranno i corpi, sfigurati, dei due cineasti, uccisi entrambi con un colpo alla nuca.

Ma dopo i titoli di coda ecco un secondo finale, a sorpresa: in quella stessa casa di via Tasso si vede in primo piano un altro De Angelis, Modesto (sì, l’ultimogenito di Gerardo, che nel ’44 aveva appena 13 anni), che il 25 aprile guida i visitatori nel Museo della Liberazione. Sotto il volto segnato e i capelli bianchi conserva la vitalità e il coraggio del padre, facendo rivivere ogni anno ai giovani i drammi e le speranze di chi si è battuto, a costo della vita, per un’Italia libera e democratica.

Nemmeno uno screenwriter brillante come suo padre avrebbe immaginato un finale così.

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami