CORONAVIRUS E CARCERI

L’aggravamento di un problema culturale

di Alessandro Vaccari

La pandemia in corso, fra le tante conseguenze nefaste, ha anche quella di acuire carenze strutturali preesistenti che, non affrontate a tempo debito, rendono poi ingestibili le situazioni di emergenza. Questo vale ad esempio per le carceri italiane che da sempre versano in condizioni deplorevoli.

Utilizzando i dati ufficiali del Ministero della Giustizia e facendo un rapporto fra numero complessivo dei detenuti e capienza prevista dai regolamenti, al 31 dicembre 2019 per ogni 100 posti disponibili risultavano detenute 120 persone. Si tratta evidentemente di un dato medio e ad esempio, nel carcere di Regina Coeli, il rapporto diventa di 170 detenuti per 100 posti previsti. Gli edifici carcerari sono talvolta vecchi e fatiscenti, in condizioni igieniche spesso inaccettabili e non in grado di   permettere ai detenuti di mantenersi attivi e di usufruire di luce e aria sufficienti. Gli agenti di polizia penitenziaria percepiscono retribuzioni inadeguate e sono costretti a operare in condizioni di semi-reclusione. Gli organici del personale sanitario, degli educatori, degli psicologi risultano del tutto insufficienti mentre   alcuni direttori sono addirittura preposti a più di un istituto carcerario. Tutte queste annose carenze, che rendono difficile e carica di tensione la vita quotidiana nelle carceri, si acuiscono in periodi di crisi come quello attuale in cui risulta problematico mettere in atto i provvedimenti di emergenza richiesti per contenere il diffondersi della pandemia.

Già nel marzo scorso le particolari restrizioni imposte dal lockdown avevano aggravato la difficile situazione carceraria portando a rivolte in cui il malcontento dei detenuti, facile terreno di strumentalizzazione per gruppi criminali organizzati, era esploso causando la morte, in circostanze ancora non del tutto chiarite, di ben 13 persone.

Le misure sanitarie attuate, un certo numero di scarcerazioni, alcune delle quali hanno suscitato violente polemiche politiche, l’accresciuta possibilità per i detenuti di comunicare almeno a distanza con i loro cari, hanno permesso di attenuare le tensioni iniziali.

Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti nel bollettino settimanale sulla diffusione del Coronavirus nelle carceri a fine novembre segnalava che sui 53830 detenuti, i contagiati erano 897, distribuiti in 83 penitenziari mentre si contavano ben 1012 contagiati fra agenti di polizia e operatori penitenziari. Questi dati sono oggetti di interpretazioni divergenti: per alcuni dimostrano che le misure messe in atto hanno prodotto un soddisfacente contenimento della pandemia, per altri in ogni caso le condizioni in cui vivono i carcerati non danno garanzie che la situazione non possa ulteriormente peggiorare.

Resta il problema delle misure di chiusura tuttora necessarie per limitare il contagio che continuano ad alimentare un ulteriore isolamento verso l’esterno dei detenuti;  si tratta  della sospensione dei colloqui in presenza con i familiari, di quella  delle lezioni, dei colloqui psicologici e di formazione professionale  che in molti istituti non sono ripresi nemmeno a distanza. 

Battersi per i miglioramento delle condizioni dei detenuti diventa perciò una questione democratica di centrale importanza.

Per questo l’esponente radicale Rita Bernardini, sostenuta dall’Associazione Nessuno tocchi Caino, ha iniziato uno sciopero della fame   a cui aderiscono detenuti e liberi cittadini.

Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi appoggiano questa iniziativa di protesta diffondendone la conoscenza e attuando a loro volta un digiuno simbolico di solidarietà di 48 ore. Rita Bernardini si batte da tempo contro il sovraffollamento delle carceri italiane e chiede misure straordinarie per far fronte alla diffusione del Coronavirus, giudicando inadeguate le misure messe in atto dal governo.

Si può concordare o meno sulle misure di riduzione delle pene detentive proposte dai promotori dell’iniziativa, ma è fuori dubbio che essa ha il merito di porre in primo piano la necessità di affrontare in modo strutturale la situazione delle carceri italiane, sulle cui condizioni non sono mancati richiami e sanzioni nei confronti dell’Italia da parte di diverse istituzioni europee.

Purtroppo, sondaggi alla mano, la maggior parte dei politici italiani preferisce non affrontare un problema ritenuto impopolare, lasciando libero corso ai propagandisti    della vendetta come sostituto della giustizia e alla diffusione di un veleno ideologico che contamina ampi settori della popolazione.

Battersi per i miglioramento delle condizioni dei detenuti diventa perciò una questione democratica di centrale importanza, di riaffermazione di quel basilare principio di civiltà sancito dall’’art 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami