L’alluvione di Firenze del 4 novembre1966

di Alessandro Sandrini

Era un bel po’ che pioveva.  Abitavamo a Rifredi, zona nord di Firenze; poco distante c’è Villa Medicea di Castello. 

Quella mattina del 4 novembre 1966, festa delle Forze Armate, ero a casa con mia madre, mia sorella e mio fratello. Mio padre era andato in centro per qualche appuntamento. Tornò quasi subito: arrivato in piazza Stazione era dovuto tornare indietro perché le strade erano allagate: 50/60 cm d’acqua. Lì per lì non ci demmo troppa importanza.

Dal terrazzo del nostro appartamento potevamo vedere giù sotto il Terzolle in piena che lambiva il piano stradale del ponte di Via Santo Stefano in Pane. Era un’acquaccia tumultuosa, chiazzata di nero e piena di detriti, rami, bidoni, mobili… Non immaginavamo che l’Arno, in cui sfociavano tante fiumane di quel genere, potesse essere mostruosamente più grande e distruttivo. 

Di dì a poco andò via la luce, poi acqua, gas e telefono. Ma ancora nessuno aveva idea di cosa fosse successo.

Verso mezzogiorno dalla radiolina cominciarono ad arrivare notizie allarmanti. L’Arno era andato di fuori.

Mia madre cominciò a preoccuparsi seriamente per le zie che abitavano in via de’ Macci, accanto a Santa Croce. Erano anziane e non uscivano più di casa. Si doveva portare loro la spesa e un paio di volte a settimana il carbonaio le riforniva del carbone per riscaldare la casa. Come se la sarebbero cavata? 

Sarà questione di poco, pensavamo. Ancora non avevamo idea della situazione.

Tutto era iniziato alla fine di ottobre del 1966 con piogge continue e abbondanti. Al contrario di quanto molti ricordano, i quattro giorni precedenti il 3 novembre furono asciutti. Le piogge dei giorni 3 e 4 furono però diffuse, intense e ininterrotte. 

Nell’alto Valdarno le precipitazioni quasi raddoppiarono, fino a registrare il valore record di 437.2 mm in 48 ore. Nel pomeriggio del 3 novembre l’aumento delle temperature di 5° portò allo scioglimento delle nevi da poco cadute sull’Appennino, ingrossando gli affluenti dell’Arno a monte di Firenze. 

Verso sera in provincia di Arezzo ci furono le prime esondazioni con frane e smottamenti. Verso le 23 ci furono le prime vittime a Reggello. Da quel momento in poi la situazione peggiorò fino all’esondazione dell’Arno a Firenze. Erano le 4. 

Secondo i dati dell’Autorità di Bacino dell’Arno, nel suo momento di picco la piena raggiunse una portata di 4000 m3/s. Gli effetti dei 230 milioni di metri cubi di acqua cheentrarono a Firenze furono catastrofici: 17 morti in città, più altri 17 in provincia, con danni gravissimi ai palazzi, alle abitazioni, alle strade, alle attività commerciali e artigianali, al patrimonio artistico-culturale, al sangue vitale della città.

In quel drammatico giorno le strade erano diventate arterie sconvolte da un liquido fangoso composto da tutto quello che le acque spazzavano via: melma, piante, animali, gasolio, masserizie, fognature bianche e nere, cartelli stradali, auto, edicole e chissà altro ancora. 

La scena di Amici miei in cui il Melandri, dopo essersi intrattenuto con una signora, la mattina si getta nelle acque per tornare a casa è ovviamente ridicola e paradossale. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di farlo. L’unica salvezza, per chi poteva, era salire più in alto possibile. Alcuni furono intrappolati come topi.

Ma come era potuto accadere? 

Si sparse la voce che la causa era l’apertura improvvisa delle dighe a monte. Qualcuno disse anche che un elicottero aveva sorvolato le dighe e che le aveva trovate vuote.

L’Arno è un torrentaccio con “sfrenate ambizioni di fiume”. Quando piove si gonfia in tutti i suoi 241 km in modo spesso irrefrenabile. E quando non piove, si secca.

Nel corso dei secoli Firenze e tutta la valle dell’Arno verso ovest fino a Pisa ha subito innumerevoli alluvioni, sempre con danni ingenti. Dante ne vide tre. Lo storico Giovanni Villani descrive gli effetti della ben più disastrosa alluvione del 1333 quando l’Arno “coperse… i campi e le vigne, menandone masserizie, e le case e molina e molte genti e quasi tutte le bestie”. Tutti i ponti furono distrutti, anche Ponte Vecchio, dal quale fu spazzata via la statua di Marte (ricordata da Dante nella Commedia): ciò fu visto come un segno di sciagura, soprattutto alla luce della peste nera del 1348 che falcidiò la città e che diede spunto al Decameron di Boccaccio. Altre disastrose alluvioni avvennero nel 1547, 1557, 1844. Come scrisse Il Lasca nel 1557, l’Arno non è “già tranquillo, lieto dolce e chiaro,ma tempestoso… torbido ed amaro… empio rio tiranno… Menando via coll’onde irate e fiere, vigne, poderi, e case intiere, senza aver discrizione di bestie e di persone”.

La gestione iniziale dell’emergenza fu disastrosa: i dispacci inviati a Roma dalle autorità militari furono presi sottogamba, come quello proveniente dalla caserma Baldissera, situata in riva all’Arno a circa 500 metri da ponte San Niccolò. I ministeri degli Interni e della Difesa risposero invitando alla calma e a non procurare allarmismi.

Marcello Giannini, allora caporedattore della sede Rai in Toscana, era a casa quando prima della mezzanotte del 3 novembre ebbe una telefonata dalla Prefettura che lo informava che a monte di Firenze la situazione stava precipitando: in provincia di Arezzo la gente si rifugiava sui tetti dei casolari e la strada tra Figline e Incisa era già allagata. Tornò quindi in redazione in centro e prese contatto con tutti i corrispondenti. Cercò poi di far passare la notizia al giornale radio della Rai. Inutilmente.

L’Arno tracimò dalle spallette alle 7.26 del 4 novembre. 34 minuti dopo il Giornale Radio nazionale aprì con la notizia che erano cominciate le celebrazioni delle Forze Armate. Ottenuta una linea a fatica una linea, Giannini annunciò con voce strozzata che una valanga d’acqua fangosa stava tracimando dalle spallette di Ponte Vecchio e Ponte alle Grazie e che la città era ormai isolata. Stava per dire che a Santa Croce l’acqua aveva raggiunto i 6 metri quando da via Teulada lo sfumarono. Telefonò al direttore generale della Rai Ettore Bernabei che gli disse: “So che sei stanco perché hai lavorato tutta notte. Bravo. Ma prima di dare l’allarme dobbiamo verificare. Vatti a prendere un caffè in via Cerretani che dopo ne riparliamo”. Al ché Giannini prese un microfono e lo calò dalla finestra verso la marea di fango che invadeva le strade, mentre chiaramente si udivano gli schianti delle automobili trascinate dalla corrente che stava sfondando il portone del palazzo in piazza Santa Maria Maggiore. “Se apro la finestra, tanto per dare l’impressione di cosa c’è sotto di noi, se si sente il rumore. (…) Ecco, questo non è un fiume, non è un fiume, ma è la via Cerretani, è la via Panzani, è il cuore di Firenze invaso dall’acqua”, urlò Giannini. Solo allora Bernabei cominciò a capire.

Insomma, non vi fu nessun preallarme. La Protezione Civile ancora non esisteva. Tanti piccoli centri rimasero totalmente isolati con la gente colta all’improvviso.

Verso mezzogiorno, come poi rievocato in una sequenza di Amici miei di Comencini, da

Piazzale Michelangelo, Firenze appariva come un grande lago: spuntavano solo i campanili, i tetti, Santa Croce, la cupola di Brunelleschi, la Torre di Palazzo Vecchio, tutto era circondato d’acqua mescolata al fango e alla nafta fuoriuscita dagli impianti di riscaldamento.

Solo nella notte tra il 4 e il 5 arrivarono i primi soccorsi: all’esercito e a tanti cittadini coraggiosi, si aggiunsero i bagnini della Versilia con gommoni e pattini.

Intanto la luce era tornata in alcune zone periferiche, e dalla TV potemmo vedere immagini che mai avremmo immaginato. 

Come era salita velocemente, così quell’acquaccia melmosa, altrettanto velocemente defluì, lasciando dietro di sé uno scenario apocalittico.

Con mio padre e mia madre cercammo di raggiungere le zie a Santa Croce. Ricordo perfettamente lo sfacelo di quelle strade sconvolte, le strisciate di gasolio che indicavano sui palazzi l’altezza che quella broda infernale aveva raggiunto, l’odore nauseabondo che ammorbava da tutte le parti. Ma soprattutto ricordo la consistenza di quel fango misto a nafta, scarichi fognari e detriti indefinibili, di un colore grigiastro, appiccicoso come cemento. 

Chi era in giro cercava di fare qualcosa, di salvare o recuperare quel che era possibile. Qualcuno si vagava sconvolto. Mentre camminavamo a tentoni in quella fanghiglia, un uomo si avvicinò a noi e ci offrì una bozza di pane. Aveva gli occhi stralunati… “Chissà che cosa gli è successo?”, si chiese mio padre. In tanti erano così.

C’era gente che aveva perso tutto: attività artigianali e negozi, soprattutto nel centro storico, furono completamente distrutti. All’Arco di San Piero la rosticceria di Mario “Partitina” amico di mio padre fu completamente devastata dalla furia dell’acqua che aveva divelto anche la saracinesca. Il corniciaio Curradi in Piazza Madonna, la galleria di Impero in piazza del Mercato Centrale, il ristorante di Franco in Santa Maria Novella, tutti amici di famiglia, furono completamente spazzati via. I cavalli che un altro amico aveva nelle scuderie delle Mulina fecero tutti una fine orrenda. Il mio amico Lapo mi raccontò di aver assistito al rogo quando ne bruciarono le carcasse. Ancora oggi ne ricorda il fetore.

Mancava l’acqua ed era difficile fare la spesa perché molte strade erano interrotte.

Mio padre nei giorni successivi riuscì a trovare qualcosa fuori città verso Bologna e Forlì.

Ricordo ancora che qualche giorno dopo arrivò una compagnia di soldati olandesi che proprio sotto le finestre di casa mia in riva al Terzolle montarono delle vasche per potabilizzare l’acqua. Ho ancora vivo il sapore di quell’acqua piena di cloro, disgustosa. Ma potevamo cucinare e lavarci.

Quattromila famiglie rimasero senza casa, seimila negozi furono distrutti, sessanta chiese gravemente danneggiate, migliaia di opere lesionate, centinaia di strutture devastate e qualcuno perse la vita.

Cominciò un’enorme solidarietà verso le popolazioni colpite: tutti davano una mano a tutti. C’era da spalare il fango, togliere le macerie, ospitare amici e conoscenti, dare un minimo di conforto a chi era nella disperazione. Il contributo dell’esercito, allora composto da giovani ragazzi di leva, fu fondamentale. Importante fu l’aiuto che arrivò soprattutto dai giovani provenienti da tutto il mondo, come “gli angeli del fango”, di quella generazione che poi avrebbe dato vita al ’68: in tanti accorsero alla Biblioteca Nazionale per salvare migliaia di libri, incunaboli e manoscritti preziosissimi. Nei miei anni di università, alla fine degli anni ’70, alla mia richiesta di qualche libro particolare alla BNCF, mi veniva risposto “Indisponibile. In fase di restauro perché alluvionato”. Ma nei sotterranei degli Uffizi e nelle chiese del centro storico c’erano altre migliaia di opere d’arte impastate di fango che seccandosi diventava un collante infernale. Arrivarono aiuti anche dall’Unione Sovietica, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria e da tanti altri paesi. Intellettuali e personaggi famosi nel mondo si mobilitarono per sostenere la solidarietà.

Grande impressione suscitò il recupero del Cristo di Cimabue di Santa Croce, per gran parte scrostato dall’azione distruttiva di quel fango mefitico. Alcune formelle placcate d’oro della Porta del Paradiso del Ghiberti sul lato est del Battistero vennero divelte.

Il 23 novembre uscì il film documentario Per Firenze di Franco Zeffirelli, con i testi di Furio Colombo e le musiche di Roman Vlad. Ted Kennedy, fratello di JFK, trovandosi in quei giorni a Roma, partì immediatamente per Firenze per dare il suo contributo al film e lanciare un appello agli americani e agli abitanti del mondo intero per soccorrere la città. 

Firenze cominciò immediatamente a ripulirsi e a cercare di rimettersi in piedi, superando le difficoltà con l’orgoglio e il sarcasmo tipici dei suoi cittadini. 

Dopo l’alluvione sono cambiate molte cose. Negli anni seguenti la Toscana e Firenze hanno gettato le basi di un nuovo modo di gestire il territorio e mitigare il rischio geologico. Fin dagli anni 50 questo era stato aumentato da un’incontrollabile e scriteriata crescita urbanistica, senza considerare le zone di esondazione dei fiumi e gli equilibri naturali del territorio.  Ma ci è voluto molto tempo prima che, alla fine degli anni ’80, fossero istituite le Autorità di Bacino e i relativi Piani di Bacino, e solo dopo il 1998 ci furono ulteriori passi in avanti nella prevenzione e nella mitigazione dei rischio idrogeologici, con i Piani di Assetto Idrogeologico (PAI), che definiscono le aree a rischio esondazione e soggette a frana, con relativa pericolosità nel caso di un nuovo evento alluvionale.

In occasione del 50° anniversario dell’alluvione, l’ingegnere Gerald Galloway, docente all’università del Maryland, in un’intervista su Radio 1 Rai disse che “non si tratta di capire se e come si possa ripetere una catastrofe del genere ma solo quando… la città resta a serio rischio alluvione e questo rischio è destinato a crescere ogni giorno di più, se non interveniamo. Occorre procedere con la costruzione di nuovi invasi distribuiti lungo il bacino dell’Arno, ma anche con l’impiego delle casse di espansione, la modifica di alcune infrastrutture sul fiume, che ne limitino la capacità di convogliare in sicurezza la portata di piena e l’aggiornamento della mappatura della pericolosità idraulica del suo bacino”.

Dopo tanti anni mi sono convinto che Firenze tornò alla sua grandezza perché era Firenze, cioè l’orgoglio un po’ snob dei suoi cittadini misto all’ammirazione di tutto il mondo. Richard Burton, il grande attore gallese marito di Elisabeth Taylor, era la voce narrante del documentario di Zeffirelli. Ho ancora in mente il suo volto mentre parlava: “Io sono Richard Burton. Voi perdonerete il mio italiano imperfetto, ma vorrei cercare di parlarvi senza traduzione perché quello che è accaduto in Italia e a Firenze mi riguarda profondamente. […] Adesso Firenze ha bisogno dell’aiuto di tutti, perché Firenze appartiene al mondo, quindi è anche la mia città

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