Il giovane ricco. La Recensione di Moreno Macchi

«Cinque grandi anelli,
algidi di diamanti e smeraldi,
le luccicavano
sulle mani esili»
Francis Scott Fitzgerald,
Il giovane ricco (romanzo breve)
Passigli Editori
Se non avete tra le vostre relazioni un amico ricco (ma ricco sul serio) e volete conoscerne uno decisamente esemplare, lo troverete in questo breve romanzo del grandissimo Francis Scott Fitzgerald, che di ricchi, di feste, di mondanità sfrenate e di eccessi se ne intendeva davvero; basti pensare al brillante e indimenticabile Jay Gatsby dell’eponimo romanzo (Il grande Gatsby), alla sua stessa vita fatta di eccessi smodati e degna di un personaggio dei suoi più noti romanzi.
Qui il giovane ricco si chiama Anson Hunter e (come già era il caso nel romanzo appena citato) è amico del narratore, che – lui – ricco non è, ma si ritrova a frequentare il giro di Anson, tra inenarrabili bevute, sfarzose feste, elegantissimi party, scorribande varie e brillanti figure femminili del jet set americano di quella che è comunemente chiamata l’«età del jazz», nella quale si situano praticamente tutti i romanzi e i racconti dell’autore americano.
Il giovane ricco possiede una lussuosa limousine, un aereo personale (col quale riesce perfino a precipitare nel Mare del Nord alla fine del Primo conflitto mondiale, beccandosi una bella polmonite prima di essere portato in salvo da una nave di passaggio), frequenta (ovviamente) la miglior società di New York e ha perfino una futura e poi effettiva fidanzata (Paula Legendre) che però presto ne scopre la doppia personalità (un Anson serio, pacato, perfino severo quando sono soli e un altro Anson dall’alito sempre carico dell’alcool degli innumerevoli cocktail ingurgitati che lo rendono ridanciano e perfino rozzo in presenza di altre persone) e per questo decide di allontanarsene ma senza riuscirci veramente, tanta è l’attrazione che Anson esercita su di lei.
Così quando c’è, lei lo evita e, quando lui se la dà a gambe, lo rimpiange e lo cerca. E finisce poi per sposarsi con un altro spasimante anche lui non privo di fascino e di soldi, mentre Anson moltiplica le avventure (sempre brevissime) fino quando incontra Dolly, dal carattere problematico e che colleziona relazioni che finiscono immancabilmente male.
Quella tra i due è però soprattutto incentrata sui «forse chissà» e assomiglia a un giro sulle montagne russe con faticose salite e vertiginose discese. Poi anche Dolly finisce per sposarne un altro e Anson rimane definitivamente solo.
Quanto al narratore, questi assiste imperterrito e senza particolari patemi d’animo a tutte le vicissitudini sentimentali e non del suo amico (un po’ come il Nick de Il grande Gatsby), ma svolge più il ruolo di testimone passivo che quello di consigliere, di confidente o di Grillo Parlante e non sembra mai volersi intromettere nelle peripezie del suo ricco e instabile amico che (contrariamente a Jay Gatsby) non sembra avere scopi precisi o particolari ambizioni, come se stesse « attraversando » la propria vita su una barca senza remi né timone.
Il suo sguardo sembra acritico e il suo percorso assolutamente piatto, proprio come quello di uno spettatore o di un commentatore sportivo, visto che Fitzgerald lo fa intervenire solo sporadicamente, dedicandogli in tutto qualche riga, senza nemmeno dargli un nome, pallida figura in limine del romanzo, quasi il suo ruolo fosse solo quello di indicare (e ricordarci) che il tempo passa, le stagioni si susseguono, e che il protagonista e lui stesso inesorabilmente invecchiano…