Le folle irrazionali di Gustave Le Bon e il collettivismo

Di Amedeo Gasparini

“La folla è sempre irresponsabile, nel senso che non si sente responsabile come collettività, ma al contempo annulla anche la responsabilità individuale”

«Conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, significa possedere la capacità di governarle». Sarà per questo che Benito Mussolini – spesso piuttosto mendace nelle affermazioni di autoincensamento – teneva una copia di Psicologie delle folle (1895) di Gustave Le Bon sul comodino. Il Duce diceva di aver letto l’opera del sociologo francese un’infinità di volte. L’aveva capito e interpretato alla lettera. Le Bon (nato il 7 maggio di centottant’anni fa) è stato uno dei maggiori studiosi della Francia di fine Ottocento, uno dei massimi sociologhi della sua epoca, assieme al tedesco Georg Simmel, l’italiano Scipio Sighele e i connazionali Gabriel Tarde ed Émile Durkheim. Le Bon seppe individuare un nuovo movimento che pian piano stava prendendo coscienza di sé: e sarebbe stato riduttivo parlare di classe operaia come facevano Karl Marx e altri. Le Bon indentificò una categoria pericolosa e trasversale alle classi sociali: la folla, una dimensione forgiata nel collettivismo, che prendeva coscienza di sé e agiva nella società con protervia; come un leone, che solo l’oculato domatore sarebbe stato in grado di addomesticare e strumentalizzare.

Nel celebre saggio, Le Bon spiega come nella “totalità” della folla l’individuo venga annientato e agisca in qualcosa di più grande di lui. «Nell’anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini e, di conseguenza, le loro individualità vengono annullate», ma d’altra parte, essendo la folla «anonima e dunque irresponsabile, il senso di responsabilità che trattiene il singolo è assente». La folla è sempre irresponsabile, nel senso che non si sente responsabile come collettività, ma al contempo annulla anche la responsabilità individuale. Nella folla, l’individuo «acquista consapevolezza della forza conferitagli dal numero» e quindi segue gli impulsi; le folle non ragionano, «non ammettono discussioni, né contraddizioni». Sono intolleranti e «pronte a sacrificarsi per l’ideale che è stato suggerito loro». La folla è monolitica, volgare; è preda di influenze irrazionali e priva di spirito critico; «non può che essere di una crudeltà estrema», anche perché idolatra e apprezza figure dure e crude che s’innestano nel tessuto sociale se non con la violenza.

La folla, collettivismo puro, è un aggregato irrazionale, che porta e stimola a pulsioni irrazionali e dunque pericolose. La folla crea «un’anima collettiva», che «fa pensare e agire [gli individui] in un modo diverso da come sentirebbero, penserebbero e opterebbero isolatamente». Le folle – sempre a protestare, inveire, rumoreggiare – credono di essere libere per il semplice fatto che contestano (spesso l’autorità precostituita), ma «l’anima delle folle è sempre dominata dal bisogno di servitù, non da quello di libertà». Il collettivismo della folla annulla le gerarchie sociali. Uniforma, «dal momento che sono compresi nella folla l’ignorante e il dotto che diventano parimenti incapaci di fare osservazioni». L’individuo, preda della folla, si abbandona volentieri alla stessa di cui è parte e che gli consente di non pensare e riflettere. Diventa parte della collettività, «si avvicina agli esseri primitivi». Nella folla «la personalità cosciente è annullata, la volontà e il discernimento abortiti»; è la forma collettiva-irrazionale che prevale. Ne deriva che, libero da ogni freno inibitorio, nella folla irrazionale l’individuo si sente capace di fare tutto ciò che vuole: si sente onnipotente.

Gustave Le Bon

Ma «la folla è facilmente eroica quanto criminale». È disposta a tutto: «si tratti di incendiare un palazzo o di compiere un’opera di devozione, la folla vi si presta con la stessa facilità.» Ci sono poi determinati momenti storici in cui anche una «mezza dozzina di uomini può costruire una folla psicologica». Continua Le Bon: «le folle, non conoscendo che i sentimenti semplici ed estremi, accettano e rifiutano in toto le opinioni, le idee, le credenze che vengono suggerite loro, che tendono a considerare come verità assolute o come errori non meno assoluti».

Le Bon non risparmia neppure il mondo scolastico dal collettivismo della folla: esso è, a sua maniera, paradossalmente un microcosmo. Inconsapevolmente, nella sua opera Le Bon fa da maestro anche ai dittatori del primo Novecento: spiega come creare il consenso verso una certa ideologia sin dall’infanzia. «Dalla scuola elementare all’università, il giovinetto non fa che assorbire il contenuto dei testi, senza esercitare mai il suo giudizio»; egli, semplicemente, apprende a memoria («le folle si guidano con modelli, non con argomenti»).

Le scuole insegnano «l’infallibilità del maestro» e questo non aiuta lo spirito critico del singolo, divorato dalla dimensione collettiv(ist)a che la folla gli conferisce. «In una folla, ogni sentimento, ogni atto è contagioso e lo è a tal punto che l’individuo sacrifica ogni suo particolare interesse per quello collettivo» (anche se, quando è nella folla, non lo sa). E non lo sa perché «le folle non hanno mai avuto sete di verità». La folla è bugia e vanagloria; è anche vittimismo aggressivo. Indiscriminata ed eterogenea si riorganizza solo sotto ad un capo che la adula. Le folle hanno bisogno del boss che le guidi, le galvanizzi, le incendi, le elogi. «Quando un certo numero di esseri viventi si riunisce, che si tratti di animali o uomini, si pone istintivamente sotto l’autorità di un leader».
Con un’attualità impressionante – quasi come se Le Bon avesse visto gli attuali demagoghi e populisti arruffapopolo-arruffapoveri – spiega che «i trascinatori di folle, il più delle volte, non sono intellettuali, ma uomini di azione»; oggi sono solo animali da social media.

La folla è grottesca e pavida: «sempre pronta a sollevarsi contro un’autorità debole, innanzi a un potere forte, si piega servilmente». La folla è forte con i deboli – c’è sempre il capro espiatorio che viene schernito dalla stessa – e debole con i forti – rimane incantata dal pagliaccio-capo che la monta, come si fa con la panna, nelle sue lunghe tirate. Il leader fa inoltre leva sul sentimento e l’impulso della folla, sul collettivismo che questa riesce a creare; e non sulla ragione del singolo e dell’unico. Le Bon spiega che qualora un dogma potente si insidi nelle anime, ne assume prepotentemente il controllo. Difatti, la folla ha bisogno di una divinità a cui guardare: la divinità esercita fascino e unisce ancora di più la folla nel recinto dell’assurdo. Dà sicurezza. «Imprimere la fede, sia essa religiosa, politica o sociale, in un progetto, in una persona, un’ideale, è il compito che i grandi leader sono chiamati ad assolvere.» La divinità è più prossima alla folla se esiste la venerazione dell’essere ritenuto superiore, a cui la folla riconosce «cieca obbedienza ai suoi voleri, rifiuto di mettere in discussione i dogmi, desiderio di diffonderli, tendenza a considerare nemici coloro che rifiutano di accoglierli». Che i populisti-demagogici odierni – campioni del collettivismo – abbiano per caso, come Mussolini, letto pure loro il saggio di Le Bon?

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