Libertà e licenza

Nel 1944, causa possibili e terribili bombardamenti anche diurni su Verona, mia città d’adozione, non frequentai la scuola pubblica, ma presi lezioni private per la quarta ginnasio ed ebbi la fortuna di avere come docente di latino il professor Casimiro Adami. Piccolino, capelli e baffi bianchi, in pensione da sei anni, (prof di latino e greco al Liceo Classico “Scipione Maffei”), definito “ricco di sapienza e carisma”, Casimiro Adami riuscì in breve a farmi amare il latino (che ritenevo “inutile lingua morta”) e mi insegnò – in memorabili lezioni – la differenza fra libertà e licenza.

Non sembri assurdo, o strano, ma queste lezioni – che, peraltro, mai mi hanno abbandonata – si rifanno quanto mai vive vedendo una folla di turisti stranieri (ma anche alcuni connazionali) per le nostre strade, nello “sbracamento totale”. Abbiamo già avuto modo di parlarne, ma l’argomento si rifà quanto mai vivo, con tante voci che si levano dai vari mezzi di comunicazione, dalla carta stampata a numerose trasmissioni radio e TV.

Indubbiamente, anche i “nostri” – soprattutto se studenti – quando vanno all’estero si fanno subito notare (ad esempio, sotto i lunghi portici di Rue de Rivoli, o nel metrò, a Parigi, schiamazzano, ridono, si spingono … “ah, les italiennes!”), ma qui ecco giovani e meno giovani d’ogni continente che – nel “Bel Paese”, non  nelle località balneari, ma nelle città d’arte – credono che libertà sia, appunto, licenza; licenza di farsi vedere in micro short stinti e strappati (“tanto moda”!), canottiera stropicciata e bucherellata, se non addirittura a torso nudo gli uomini – dagli adolescenti ai millenials agli eterniels; in micro short con top o reggiseno le donne. Esponendo impunemente, spesso, ventri debordanti, rotoli “di ciccia”, cosce a prosciutto, quando non si arriva a pelle cascante, rugosa, da alligatori.

Ecco dunque trionfare il presunto abbigliamento, anche mettendo orgogliosamente in evidenza vari tatuaggi. Molti giovani che aborriscono “la diversità”, non si rendono conto che il “tattoo” (o “tatù”), ideato da tribù primitive, seguito nei secoli dai maori e altri – è quanto di più tribale, “diverso” possa esservi (senza contare, come è stato detto, che “la pelle non è una lavagna, le scritte non si tolgono con un cancellino”.

Indubbiamente, nell’era del digitale, del “cafonal plus”, sentir parlare di “dress code” (o codici del vestire), di stile, buon gusto, e dignità a seguire, è ridicolo, obsoleto da “vecchi bacucchi”. E vien da ricordare quando, negli anni ’80, a New York, ad Ottavio Missoni fu vietato l’ingresso in un ristorante perché indossava una giacca tipicamente Missoni, e non il modello classico, scuro; così come capitò a nostri colleghi, a Londra – per pranzo, non per cena – perché indossavano giacche a quadretti, con maglioncino. Nei decenni si è passati dalla “moda” più rigida ad una giusta libertà, per arrivare alla più deprecabile licenza, passando il tutto con la giustificazione “é di moda” (e costume, o mal costume).

Inoltre, a questo spettacolo della licenza totale nel simil-abbigliamento, si aggiunge quello di cartacce, bottigliette vuote, bicchieri di carta ovviamente usati, bucce di frutta, avanzi – anche maleodoranti – di spuntini vari lasciati, come sappiamo, sui gradini di palazzi storici, in giardini pubblici, per la strada, se non sui bancali delle finestre di abitazioni private (sconosciuti i cassonetti delle immondizie, che possono essere a fianco). Licenza, e super maleducazione, cui si aggiungono le scritte su monumenti e muri (meglio se storici), i “lucchetti dell’amore”.

Una licenza ed un mal costume che – per contro-vengono dimenticati lasciando ben sperare quando, fra le cinque e le sei del mattino, nelle nostre strade si possono vedere giovani donne e uomini che – talvolta con contapassi in mano – da soli o in piccoli gruppi, camminano a passo svelto e deciso, o corrono, impeccabili, in tuta oppure bermuda e t-shirt perfetti, e sneakers, in un’immagine pulita, di pura libertà. Al bando la licenza.

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