L’influenza dell’opera sulla lingua italiana

di Sauro Giornali

L’idea di creare un teatro cantato nasce a Firenze, nell’ultimo quarto del Cinquecento, da un gruppo di intellettuali, scrittori e musicisti che si incontrano nella casa del conte Bardi, in via dei Benci, che per questo ha preso il nome di “Camerata dei Bardi”. Le discussioni della Camerata girano intorno alla maniera di riprodurre il teatro greco e latino, che era cantato. Il risultato principale della Camerata è la creazione di uno stile di canto monodico, cioè fatto da una sola melodia, che si contrappone al canto polifonico, fatto da più melodie, allora dominante. La monodia è una necessità per il nuovo stile musicale: nel teatro cantato non si tratta solo di melodia e armonia, ma anche mettere in scena una storia, con le varie interazioni fra i personaggi, che il pubblico deve seguire.

Dal 1600 questo tipo di canto prende il nome di “recitar cantando” e dà importanza maggiore al testo, scritto nella vecchia lingua letteraria petrarchesca con spazio a fiorentinismi contemporanei. Fra gli estimatori del recitar cantando, c’è il duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, che chiede al suo musicista di corte, Claudio Monteverdi, di scrivergliene uno. Monteverdi intuisce che questo tipo di canto può essere arricchito, e impiega molte tecniche musicali oltre il semplice accompagnamento, e crea un legame maggiore fra musica e azione. È così che nel 1607 nasce l’ “Orfeo”, il primo melodramma di grande successo.

Trent’anni dopo, l’ “opera in musica” è ormai uno spettacolo apprezzato anche dal pubblico popolare, tanto che il teatro S. Cassiano di Venezia mette in scena la prima opera pensata per un teatro pubblico, l’ “Andromeda” di Francesco Mannelli. Dall’ “Andromeda” in poi, l’opera è diventata un’impresa economica, da gestire con intelligenza e attenzione per le nuove proposte artistiche e per i gusti del pubblico. Il testo perde d’importanza e la musica prende il sopravvento: si tratta di un sorpasso storico, d’ora in poi la melodia avrà sempre un vantaggio sulla parola. La lingua dell’opera si stabilizza sul canone petrarchesco, perdendo la vivacità del fiorentino contemporaneo, e si arricchisce delle figure retoriche barocche.

Da Venezia e Napoli, dove si sviluppa l’opera comica, l’opera arriva a Vienna, Monaco di Baviera, Londra, Varsavia. Cantanti, musicisti e scrittori italiani viaggiano in tutta Europa, diventano una presenza fissa legata allo spettacolo musicale. È a questo punto che l’italiano si lega strettamente alla musica, fornendo le parole e le indicazioni usate ancora oggi negli spartiti, dove compaiono indicazioni di tempo (allegro, andante, largo), di dinamica (forte, fortissimo, pianissimo), di struttura (da capo, coda) e altre ancora.

L’ “aria”, che già dal Trecento indica un tipo di poesia, acquista sempre più rilievo fino a diventare nel Settecento l’elemento più importante dell’opera. E proprio intorno all’aria si combatte una vera e propria battaglia. Si tratta di una canzone inserita nel flusso degli eventi, particolarmente amata dal pubblico e che dà lustro ai cantanti; per questo l’intero spettacolo tende ad essere asservito alle arie, togliendo importanza alla storia. Dei riformatori provano a riportare l’opera a un’alternanza normale fra racconto e arie, e ridare verosimiglianza alla storia, si tratta di Pietro Trapassi detto Metastasio, Carlo Goldoni e Lorenzo Da Ponte. Quest’ultimo ha legato il suo nome ai libretti scritti per Mozart, ma la sua avventurosa vita lo porta ad essere un librettista di successo a Londra e uno dei primi professori di lingua e letteratura italiana a Filadelfia e New York.

I riformisti del Settecento, specialmente Goldoni, provano anche a cambiare l’aspetto linguistico dell’opera, cercando di liberarla dall’abbondanza barocca e introducendo una lingua scritta “media”. L’avvento del Romanticismo cancella questo tentativo: esaltando grandi eroi e sentimenti assoluti come l’amore, il coraggio, lo spirito di sacrificio, il desiderio indomito di libertà, l’opera romantica ha la tendenza ad usare un linguaggio letterario alto e arcaizzante. Fra il 1800 e il 1830, si costituisce un linguaggio librettistico condiviso, ispirato a scrittori celebri del tempo come Monti, Alfieri e Manzoni: così le lacrime sono “furtive”, l’addio è “estremo”, il suolo è “patrio”, i tetti sono “natii”.

Nella prima metà dell’Ottocento, appare sulla scena Giuseppe Verdi. Nelle sue 26 opere, Verdi passa dall’opera tipica, dove la musica sovrasta la parola, a un equilibrio sempre maggiore fra musica e testo delle sue ultime opere. L’italiano musicato da Verdi è potente e evocativo, ma piuttosto arcaizzante, poco adatto all’uso quotidiano. Negli anni ’80 dell’Ottocento arriva il Verismo musicale, che porta in scena drammi ispirati a Giovanni Verga e scrittori simili. Mascagni, Leoncavallo e Puccini danno un colpo alla letterarietà della lingua operistica in nome del realismo delle loro storie, ma siamo già verso l’atto finale. Il Novecento segna la diffusione del cinema e della radio, mezzi molto più economici dell’opera, che invece richiede competenze e capitali imponenti per essere realizzata. L’introduzione del sonoro nel cinema nel 1927 segna l’inizio di un rapido declino della reggenza dei teatri.

E allora, qual è stata l’influenza dell’opera sullo sviluppo della lingua italiana? Nonostante la diffusione delle arie nella cultura popolare, l’evoluzione dell’italiano ne ha risentito solo in parte. La forte impronta letteraria di questi testi impediva che l’italiano operistico divenisse un solido patrimonio linguistico comune, pur destando interesse ed emozione in tutte le fasce di pubblico. Più influente dell’italiano del teatro, la lingua operistica, specialmente a partire dall’Ottocento, ha certamente contribuito alla diffusione di modelli standard nella lingua scritta, ma molto meno nella lingua parlata, quella più viva, che continuava ad essere caratterizzata dai dialetti.

Meno legata alla storia della lingua è la convinzione, radicata specialmente all’estero, che l’italiano sia una lingua “che canta”, la lingua ideale per la canzone e per l’opera. Ma è vero? Oggettivamente, la struttura delle parole italiane, così ricche di vocali, facilita il canto. Ma non sarebbe sbagliato dire che l’italiano “canta” e le altre lingue no (basta accendere la radio e contare quante canzoni in inglese si sentono passare oggi). Non è quindi l’italiano nato per l’opera, ma piuttosto l’opera che è stata sviluppata da scrittori, musicisti e impresari italiani, che con intelligenza l’hanno fatta diventare uno spettacolo ammirato tutto il mondo.

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