L’insegnamento di Giovanni Verga

di Sandra Persello, docente di Lettere

Il 27 gennaio ricorre l’anniversario (lo scorso anno il centenario) della morte di Giovanni Verga, scrittore, drammaturgo e senatore italiano, considerato il maggior esponente della corrente letteraria del Verismo.

Il passaggio dello scrittore catanese alla grande poesia della maturità, che si manifesta nell’abbandono di ogni autobiografismo e sentimentalismo, nella scelta di nuovi contenuti (la vita delle plebi siciliane, il mondo isolano e popolare) si esplicita in un nuovo modo di interpretare la realtà.

Il Naturalismo, il cui maestro può essere considerato il francese Émile Zola, afferma una acuta esigenza di accostarsi alla realtà, che si esprime nello studio” scientifico” della società contemporanea, con lo scopo di migliorare le condizioni di vita materiale e morale delle classi più umili. Dalla sua proposta di applicare il metodo sperimentale all’arte derivano i loro principî i nostri Veristi: l’artista deve muovere dal vero e trarre la materia da fatti contemporanei, realmente accaduti.

Anche Verga auspica, nell’introduzione a L’amante di Gramigna all’impersonalità dell’opera d’arte, tale da rendere invisibile la mano dell’artista: un romanzo che sembri essersi fatto da solo e, nel contempo, avverte la necessità di un linguaggio libero da ogni accademismo, adeguato alla reale condizione dei personaggi.

L’Autore siciliano giunge quindi ad una chiara accettazione della teoria dell’evoluzione naturale, dalla quale appunto deriva il senso di vita come “lotta per l’esistenza”, teoria espressa nell’introduzione a I Malavoglia, romanzo in cui si percepisce il vivo interesse dello scrittore per le condizioni di vita del Mezzogiorno, per le inchieste e gli studi meridionali, che in quegli anni iniziano a vedere la luce.

Egli nei suoi scritti rifiuta quegli aspetti della società, che si rivelano come semplici sovrastrutture di elementi più profondi, quindi del costume, della morale e del mondo borghese, con la sua falsa sensibilità ed i suoi falsi ideali, mentre va alla ricerca di strutture reali, leggi oggettive, naturali ed economiche, che sono all’origine del nostro comportamento. Per questo si rivolge a quegli strati sociali dove tali leggi si manifestano con maggiore chiarezza: il mondo dei derelitti, degli sfruttati e degli oppressi.

In Fantasticheria (1880), mentre si rivolge ad un’amica, che appartiene al mondo di lusso da lui frequentato ed a suo tempo descritto, contrappone allo sfoggio di sfarzo e magnificenza la vita povera e primitiva del paese siciliano: “Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale il destino li ha lasciati cadere, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, mi sembravano cose seriissime e rispettabilissime, come l’istinto che hanno i piccoli a stringersi fra loro, per resistere alle tempeste della vita. […] E allorquando uno di quei piccoli volle staccarsi dai suoi per brama di meglio, il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò. Ma per comprendere questo mondo, bisogna farci piccini anche noi”.

Verga rappresenta quindi nelle sue opere il dramma quotidiano delle popolazioni della Sicilia, rappresenta gli umiliati e gli offesi, abbandonati e senza speranza, schiacciati da un nemico senza volto, lo Stato, che strappa i figli ed il pane.

Così nei Malavoglia sono descritti le pene e le miserie di un intero villaggio di pescatori, povera gente in un mondo triste e desolato, in cui si dibatte, ab aeterno senza speranza di redenzione, di riscatto, in un’esistenza dominata dalle ferree leggi della miseria, inserita in un mondo grande che, occulto, sovrasta: il mondo delle Leggi e dello Stato.

E se qualcuno riesce a salire al rango dei dominatori, anche quella è una vittoria effimera, che si risolve in una tragica sconfitta.

È il caso di Mastro don Gesualdo, che da umile manovale giunge a competere con i pezzi grossi del paese.

La valutazione pessimistica, quasi fatalistica della vita non ha in Verga alcuna speranza di redenzione. Egli non trova una religione a cui fare riferimento. Accoglie sì l’idea del progresso umano, ma lo vede solo come astratto meccanismo, come una marea in cui tutti sono destinati ad essere travolti.

Basta osservare con quale animo l’Autore si avvicina a Rosso Malpelo, ragazzo selvatico, cresciuto come una bestia nella cava di rena sotto le lave dell’Etna: la letteratura precedente l’avrebbe ignorato. Il Verga affronta invece la rappresentazione veristica del suo mondo interiore, scoprendo in quel reietto un’umanità intensissima.

Le ragioni per le quali non giunge all’accettazione di una ideologia sociale, capace di toglierlo dal suo amaro pessimismo si possono ritrovare nell’ambiente morale e sociale della sua mentalità di “agrario siciliano” o nella debolezza del partito socialista di allora.

Se si esclude il Verga, la corrente veristica non conta grandi scrittori: essa riesce tuttavia a realizzare un rinnovamento profondo della nostra Letteratura.

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