di Dario Furlani
Non dimentichiamo che siamo tutti esseri umani. Quando ci nascondiamo dietro a un ruolo, accadono atrocità
Quanto c’è di umano in un’istituzione? Qual è il giusto equilibrio tra empatia, giustizia e carcere? Domande che vengono naturali alla mente dopo la visione di Ariaferma,l’ultimo film di Leonardo Di Costanzo. L’ambiente carcerario è stato trattato da innumerevoli autori con sguardo politico, di denuncia o conservatore. Il regista napoletano sceglie invece un’altra strada. Fa un passo indietro. E osserva.
L’aria del film più che ferma sembra rarefatta. Sospesa nel tempo come il giudizio morale verso i personaggi. Non esistono buoni o malvagi, esistono solo uomini che fanno gli uomini, con le loro debolezze o i loro pregi. È soltanto in questo clima di equilibrio, in cui carcerati e carcerieri vengono messi tutto sullo stesso piano che si possono sondare delicate dinamiche sociali.
Siamo in un carcere in chiusura e le operazioni di dislocamento dei detenuti sono agli sgoccioli. Quando quasi tutte le sezioni detentive sono ormai abbandonate, un imprevisto costringe gli ultimi dodici detenuti a rimanere temporaneamente nell’istituto. Guardie e prigionieri si ritrovano quindi in un limbo di attesa, a stretto contatto uno con gli altri e costretti a interagire tra di loro.
Come succede nel surrealismo, è la presentazione di una situazione paradossale che porta l’osservatore a riflettere sulla normalità. Chi è davvero l’uomo che si sta guardando dall’altro lato delle sbarre? Quali scelte sono state compiute per portarli a giocare ruoli così diversi?
Di Costanzo non dà una risposta precisa e forse è impossibile fornirla. Ma, in una Storia segnata da ingiustizie e soprusi verso il prossimo, viene spesso dimenticato un dettaglio fondamentale: siamo tutti esseri umani.
Abbiamo incontrato il regista Leonardo Di Costanzo per discutere della pellicola.
Come è nata l’idea del film?
“Fin dai miei primi documentari mi sono sempre interessato al tema dell’integrazione, a come integrare parti ‘difficili’ della società. Il carcere è stato quindi quasi una tappa obbligata. Quello carcerario è un vero e proprio genere cinematografico, nell’affrontarlo bisogna quindi confrontarsi con tantissime opere che hanno discusso gli stessi elementi. È quindi spontaneo farsi la domanda: cosa ho da dire in più? Quello che mi sono proposto è stato non prendere parte né per l’uno, né per l’altro. Avere un punto di vista centrale, in cui il ruolo del ‘buono’ e del ‘cattivo’ non è stabilito per principio”.
Come potrebbe funzionare questo film fuori dall’Italia?
“Ho girato moltissimi film a Napoli che parlano espressamente della città e spesso ho dovuto giustificare questo mio interesse verso temi piuttosto specifici. Due settimane fa ero in Francia per la distribuzione del film e lì ho partecipato a vari dibattiti. E per la prima volta nei commenti del pubblico non c’era riferimento alla cornice culturale. Si parlava del soggetto stesso senza per forza contestualizzarlo in un luogo specifico, ed era la cosa che volevo. L’idea non era di raccontare le prigioni in Italia, bensì di mostrare la struttura stessa del carcere”.
Nel film è molto forte il dualismo tra la freddezza dell’istituzione e il calore umano. Dove si trova il punto di equilibrio tra questi due elementi?
“Credo che non ci si debba nascondere dietro al ruolo. Sono successe molte cose terribili nella Storia quando l’individuo si è giustificato con il proprio ruolo. ‘Sto eseguendo i miei ordini’, ‘la mia responsabilità finisce qua’. Esiste però il libero arbitrio, tutti hanno sì un’identità nella società ma ognuno deve essere cosciente di quello che fa”.
Dai suoi lavori e dalle sue interviste traspare un suo grande senso di empatia. Come utilizza questa sua capacità per coordinare la troupe?
“Questa è la parte difficile. Il set è pieno di creativi e tutti vogliono, giustamente, esprimere il proprio punto di vista. In generale ascolto molto, non sono uno che impone. Faccio in modo che le proposte vengano da loro. Con gli attori è un po’ diverso. In questo film avevo degli attori professionisti e amatoriali. Sono ovviamente degli approcci completamente diversi e dovevamo trovare una armonia recitativa che fosse coerente. Per arrivare a ciò bisogna lavorare molto prima delle riprese e paradossalmente parlare molto con i professionisti, dato che hanno molta difficoltà a lavorare con la controparte amatoriale. Ho potuto farlo perché ho trovato questi grandissimi attori come Toni Servillo e Silvio Orlando che dal punto di vista umano mi hanno aiutato tantissimo. Mi hanno dato fiducia. Spesso dicevano ‘non capiamo dove stai andando però ti seguiamo’”.