Lo specchio

Dicembre 2015. Isola di Leros.

 

Campo di accoglienza di Leros, distribuzione dei vestiti.

 

Il ragazzo di fronte a me stringe al petto un pacco avvolto in diversi strati di carta da imballo con le bollicine. Convincerlo a posarlo per provare vestiti ancora più difficile che convincerlo che qualcosa meriti di essere provato.

Il suo disagio nel dover accettare la donazione di abiti usati supera il mio imbarazzo nel riconoscere la sua dignità in trappola. Se fuggi da una guerra che non ti appartiene, è probabile che fino a ieri tu avessi una vita normale.

Ha atteso a lungo il suo turno, ma non vorrebbe essere qui. Esplora, con un misto di timore e ribrezzo, la stanza senza infissi, i muri scrostati, le ceste con i vestiti alla rinfusa, le file di giubbotti appesi.

Ringrazio in silenzio che non gli sia toccato un altro volontario, magari con poca pazienza e modi più sbrigativi: quando le persone arrivano a centinaia, smaltire la coda ha priorità sul servizio. Non sono pochi a non approvare la quantità di tempo che io dedico a ogni persona; “Clienti, non mendicanti,” insisto.

Sui gommoni, molti trafficanti vietano l’uso dei giubbotti di salvataggio, ritenuti troppo ingombranti, e vietano o gettano a mare i bagagli voluminosi; quel pacco, che per dimensione e peso deve avere occupato lo spazio di un bambino, mi dice che il mio lavoro con il suo proprietario non sarà facile.

Lui è un astrofisico, un ricercatore. Viene dalla Siria.

Nel pacco ha il suo libro più importante, un tomo enorme parzialmente riconoscibile dallo spessore degli spigoli, e il suo computer.

Prima del mio viaggio, M. mi aveva consegnato alcuni capi di abbigliamento semi-nuovi, freschi di bucato e perfettamente stirati. Tra questi, un paio di jeans scuri e una maglia nera Mammut in tessuto tecnico antivento, sottile ma calda, da montagna, con una zip all’altezza del collo.

M. ha posizioni politiche molto lontane dalle mie. Quando gli avevo annunciato il mio viaggio, prima aveva detto “No”, poi aveva roteato gli occhi, e infine aveva annunciato che i miei vestiti erano inadatti a quel viaggio su strada e mi aveva portata a fare acquisti.

La sua donazione attendeva da giorni di essere consegnata a qualcuno che raccontasse a M. del campione di umanità che arriva dal mare.

 

“Ho quello che fa per te,” annuncio, prima di sparire nello sgabuzzino delle borse dei volontari.

Il ragazzo mi guarda diffidente prima di posare lo sguardo sui vestiti stirati. Alcune rughe si distendono. Illustro pregi e qualità dei capi, la taglia mi sembra quella giusta: “La maglia può essere indossata sopra i tuoi vestiti e ti proteggerà dal freddo, che non devi sottovalutare.”

Esita, posa il pacco, prende la maglia. La indossa e distende il tessuto per eliminarne le pieghe. In altre circostanze, forse l’avrebbe comprata.

– C’è uno specchio?

Siamo tutti uguali.

Ci guardiamo in silenzio e scoppiamo in una risata amara.

Lo rivedo tra la gente il giorno dopo, in coda per il cibo. Indossa la maglia e i jeans.

Una volta che avrà superato tutto questo, dopo un’attesa di due anni in una tenda su ghiaia, cemento e fango, scoprirà che il sistema valuta non solo l’uomo, ma anche lo scienziato in base al suo passaporto.

I miei occhi si spostano sui bambini che giocano sotto un autocarro carico di pallet in mezzo al campo.

Tra un anno, i giornali europei inizieranno a parlare dei comportamenti aggressivi e autolesionisti che i bambini manifestano dopo una lunga permanenza nei campi di accoglienza.

Ogni bambino che incontrerò in questo viaggio subirà un ritardo scolastico di almeno due anni.

Gioco. Campo di accoglienza di Leros, Grecia, dicembre 2015. (Immagine di Simona Bonardi)

 

 

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami