di Massimo Zicari, musicologo e docente del Conservatorio della Svizzera italiana
Per alcuni mesi siamo stati confrontati con una situazione di reclusione e di auto-isolamento, bombardati quotidianamente da bollettini che evocavano scenari di guerra e che solo negli ultimi giorni hanno lasciato spazio ad importanti, rassicuranti schiarite. Abbiamo sentito esperti di ogni foggia e fattura snocciolare ipotesi e analizzare scenari, e gli epidemiologi stanno gradualmente lasciando la scena a politici ed economisti, spesso per fare un bilancio della catastrofe alla quale stiamo assistendo, a volte nel tentativo di infondere nuova fiducia in chi si sta rimboccando le maniche per ricominciare.
Se nelle scorse settimane il silenzio delle nostre strade era assordante, oggi la via di una più rumorosa, rassicurante normalità sembra essere stata imboccata. Ma vi è una fetta di umanità che ha vissuto questa desolazione in maniera più discreta, costretta al silenzio e all’isolamento lì dove la sua dimensione sarebbe quella dello spazio condiviso e la sua espressione quella del suono. Artisti e musicisti, sono per definizione confrontati con una solitudine laboriosa che si svuota di senso se privata della possibilità di presentare al mondo il frutto del proprio impegno creativo. Non è soltanto una questione di reddito, che pure diventa impellente per tutti coloro che hanno fatto dell’arte la scelta di una vita. È una questione di identità. Gli scenari che ci vengono prospettati fanno sorridere (ma si tratta di un sorriso amaro), perché ci proiettano verso l’immagine di flautisti che indossano la mascherina, o di quartetti d’archi i cui membri rispettano il distanziamento sociale nel momento dell’affiatamento e dell’intesa musicale. La serrata alla quale abbiamo visto costretti settori come quello della ristorazione non è stata ancora revocata in quelli artistici, e gli effetti, per quanto meno vistosi, non sono meno drammatici. Se, da una parte, abbiamo ricominciato a condividere spazi di socializzazione all’insegna del buon cibo, per nutrire lo spirito dovremo aspettare ancora un po’. Ma nel frattempo occorrerà riflettere sulla necessità di cambiare alcuni schemi che permettano il ritorno ad una normalità che sia sostenibile anche nei confronti di che dedica la sua vita a beni immateriali come l’arte e la musica. Nel frattempo, facciamo appello alla generosità di chi riconosce nella musica e nell’arte non tanto un “lusso innocente” ma piuttosto un nutrimento dello spirito. E non è necessario scomodare quelle argomentazioni economiche secondo cui l’indotto generato dal terziario avanzato (o meglio il quaternario, quello artistico e culturale) vale a determinare il grado di sviluppo economico di un paese, per comprendere l’importanza di sostenere una componente essenziale della nostra civiltà e della nostra vita quotidiana. Dei frutti del mecenatismo di un tempo godiamo ancor oggi: facciamo in modo che chi ci seguirà potrà godere dei frutti della nostra generosità.
