L’OMS dichiara lo “Stress da Lavoro” o Burnout, una sindrome a tutti gli effetti

Di Marina D’Enza

Lo “stress da lavoro” diventa a tutti gli effetti una sindrome diagnosticabile. Colpisce soprattutto chi lavora nel campo medico e nelle aziende e in particolare le donne. Al centro dei dibattiti sui costi per la salute e per l’economia, il burnout in Svizzera costa all’anno 18 miliardi di franchi.

Comunemente noto come burnout, lo “stress da lavoro” diventa a tutti gli effetti una sindrome, diagnosticabile, i cui sintomi sono: isolamento emotivo dal lavoro, debolezza, scarsa resa e cinismo. Lo ha stabilito l’Organizzazione Mondiale della Sanità durante l’assemblea annuale tenutasi a Ginevra a Maggio. Ci sono voluti anni di ricerca per arrivare a questo punto. Il burnout apparirà nella lista di disturbi (ICD-11 o International Classification of Diseases) che entrerà in vigore nel 2022, assieme ad altre patologie moderne come la dipendenza da videogiochi.

L’OMS ha tenuto a precisare che la sindrome da burnout non è una malattia, quindi non ha diritto per sé ad un indennizzo. Tuttavia rappresenta un “fattore che influenza lo stato di salute” e può portare a condizioni gravi quali nevrosi ed ansie, indennizzabili. Si tratta dunque di un passo avanti rispetto al passato.

Il burnout è stato giudicato un fenomeno prettamente di tipo occupazionale. Tra le cause che portano all’insorgenza della sindrome vi sono: scarse politiche sanitarie all’interno delle aziende, scarsa fiducia nella capacità decisionale dei collaboratori, orari inflessibili, eccessivo carico di lavoro, obbiettivi irraggiungibili, mobbing.

Riguarda tutte le professioni, anche se alcune sono considerate più a rischio. In particolare il burnout tra i medici è aumentato, tra il 2014 ed il 2017, passando dal già 40.6% al 45.6%. Tra gli operatori sanitari a rischio, vi sono anche i “caregiver”, cioè coloro che in diversi modi sostengono chi soffre e sta male, i quali, non riuscendo a distaccarsi mentalmente dalla professione al termine della giornata, finiscono per somatizzare. Non stupisce che il burnout sembri più diffuso tra le donne, tipicamente impiegate nelle “professioni d’aiuto”.

Anche gli impiegati nelle aziende sono toccati dal problema, siano essi uomini o donne. Tuttavia la componente sintomatologica dell’esaurimento sembra più accentuata nelle donne. Secondo lo Sportello Rosa per il Sostegno alla Gestione delle Difficoltà lavorative delle donne, ciò è dovuto alle differenze nella divisione del lavoro, al fatto che le donne si trovano più raramente in posizione di leadership, hanno meno autorità decisionale, il loro lavoro viene scarsamente riconosciuto e ricompensato con salari mediamente più bassi rispetto a quelli degli uomini, tutti fattori che portano ad un elevato livello di frustrazione. Il burnout si trova oggi al centro dei dibattiti sui costi per la salute e per l’economia. In Svizzera il problema, in tutti i suoi risvolti, costa all’anno 18 miliardi di franchi, il 4% del BIP. È dunque chiaro perché se ne parli e perché si punti sulla prevenzione, che però parte innanzitutto dalla cultura aziendale, dal rispetto della persona sul posto di lavoro, dalla possibilità di lavorare nel rispetto dell’etica professionale e personale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci ha offerto uno strumento di progresso. Ora sta a noi utilizzarlo e farlo al meglio.

L’autrice: Marina D’Enza, originaria di Milano, ha condotto un dottorato di ricerca in Genetica dei Microrganismi a Braunschweig in Germania. Da diversi anni vive in Svizzera, e lavora nell’ambito della diagnostica e dei dispositivi medici. Collabora attivamente al Corriere degli Italiani dal 2018, con interviste sulla nuova imprenditoria ed articoli a sfondo scientifico.

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