Lotta alla mafia, guerra e Resistenza, emigrazione. Il coraggio di tanti uomini e donne

La Storia è fatta di molte piccole storie. L’intervista a Francesca La Mantia, scrittrice, insegnante e regista impegnata per una società civile più onesta, equa e trasparente

di Cristina Penco

Foto: una scena del docu-film di Francesca La Mantia, “La memoria che resta

Francesca La Mantia

Il 9 maggio del 1978 Peppino Impastato, militante di Democrazia Proletaria e candidato al consiglio comunale della sua città, avrebbe dovuto tenere il suo ultimo comizio elettorale. Non arrivò mai a salire sul palco. Poco prima, infatti, fu barbaramente ammazzato per mano mafiosa. C’era chi voleva “punirlo” per la sua trasmissione ‘Onda pazza’: Impastato, infatti, conduceva il programma sulla locale Radio Aut, dove puntava il dito contro mafiosi e politici del territorio. «La mafia uccide, il silenzio pure», soleva ripetere. A distanza di quarantacinque anni dal suo omicidio, il suo operato e la sua testimonianza continuano a rappresentare un inno alla dignità personale e alla libertà di pensiero e di azione di chi ha pagato con la propria vita la lotta per la verità e la giustizia.

Quest’anno ricorre anche un altro importante avvenimento. Trent’anni fa, a Palermo, i Carabinieri intercettarono l’auto del boss Salvatore “Totò” Riina mentre stava uscendo dal residence-covo dove viveva nascosto. Dopo 24 anni di latitanza, Riina fu arrestato. È rimasto ai regimi del 41 bis (relativo al cosiddetto “carcere duro”, per la rigidità delle prescrizioni di detenzione) fino alla sua morte, avvenuta il 17 novembre 2017. Era ancora in corso l’ultimo processo a suo carico, quello sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, ossia sulla negoziazione a più riprese intercorsa tra le istituzioni e l’organizzazione criminale. Il capomafia corleonese stava scontando 26 ergastoli per numerosi omicidi e stragi, tra cui gli attentati del maggio e del luglio 1992 in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino e quelli dell’anno successivo, il 1993, in varie parti d’Italia. Non ammise mai i suoi misfatti davanti alla legge, ma, a quanto risulta, nelle ore d’aria spesso si vantava con gli altri compagni di detenzione dell’omicidio di Falcone, per esempio, e proseguiva a lanciare minacce di morte ai magistrati.  


Questo mese, poi, c’è anche un altro anniversario legato alle stesse tematiche, meno noto, ma ugualmente significativo. Il 5 maggio 1960, il cadavere di Cosimo Cristina, cronista siciliano («un giornalista senza peli sulla lingua», si definiva) fu ritrovato lungo i binari della ferrovia di Termini Imerese (Palermo). Aveva 25 anni. Il caso, all’epoca, fu archiviato in fretta e furia come suicidio. Ma oggi sappiamo che si è trattato di un omicidio di stampo mafioso: Cristina è stato il primo giornalista italiano ucciso da Cosa Nostra in Sicilia.

A distanza di 60 anni da quell’assassinio – a lungo coperto da menzogne e omertà – un libro torna sulla vicenda e la ricostruisce con rigore, attenzione e rispetto. Si intitola ‘Un uomo senza paura’ (La Corte Editore), ed è stato scritto a quattro mani da Francesca La Mantia e Angelo Urgo.
Abbiamo intervistato l’autrice, nata a Palermo nel 1985. Insegnante, scrittrice, sceneggiatrice, regista cinematografica e teatrale insignita di numerosi riconoscimenti, La Mantia è impegnata attivamente, da anni, a educare e sensibilizzare il pubblico di ogni età per una società civile più onesta, equa e trasparente.

Che cosa l’ha colpita della storia di Cosimo Cristina?
«Provo molta tenerezza per questo ragazzo. Perché era solo. Si era infilato in un gioco che era enormemente più grande di lui, senza capire in mezzo a che cosa fosse finito. Nessuno poteva salvarlo: non erano in grado di aiutarlo i suoi amici, né la sua famiglia, di umili origini. Erano tutte persone che non conoscevano né capivano le dinamiche degli intrighi politici. Cosimo stesso era troppo giovane e alle prime armi per comprendere i rischi che stava correndo denunciando pubblicamente alcuni mafiosi. Ma era intelligente e aveva un fiuto particolare per le notizie. Era diventato molto pericoloso per “il sistema”».

Il lavoro realizzato da lei e da Urgo è stato svolto con indagini accurate, con fonti e testimonianze di primo piano. È durato cinque anni. C’è stato un momento particolarmente intenso?
«È stato sconvolgente parlare con l’allora fidanzata e promessa sposa di Cosimo, Enza Venturelli, che nella sua casa di Roma, in cui ci ha accolto, dopo oltre mezzo secolo conservava foto e lettere del suo grande amore. E che da subito ha sospettato che la morte del giovane non potesse essere un suicidio, come era stato fatto passare. Il corpo del giornalista era integro e pieno di ecchimosi, con una ferita alla testa che faceva pensare a una bastonata, non all’investimento di un treno. Ma non fu mai eseguita l’autopsia. Enza è andata avanti, ma non ha mai dimenticato Cosimo e quello che era successo. Non si è mai più sposata… Purtroppo è mancata poco dopo il nostro incontro (nel dicembre 2018, ndr)».

Per quanto riguarda la lotta alla mafia, ritiene che oggi restino degli aspetti da chiarire da parte delle Forze dell’Ordine e delle istituzioni?
«Credo che la trattativa Stato-Mafia sia un punto oscuro ancora oggi. Per esempio, andrebbe fatta più luce su alcuni episodi come la strage di Palestro (attentato terroristico compiuto da Cosa Nostra nell’omonima strada di Milano, il 27 luglio 1993, di sera). Spero che il recente arresto del boss Matteo Messina Denaro rappresenti un passo avanti anche in tal senso. Il capomafia di Castelvetrano (Trapani) è stato catturato dopo 30 anni di latitanza all’uscita di una clinica palermitana dove andava regolarmente. Viveva poco distante da lì, a Campobello di Mazara. È evidente che ci sia stata una copertura da parte della comunità locale, tra connivenze e omertà». 

Nel 2015 ha realizzato il film-documentario ‘La memoria che resta’, che fa emergere il sommerso e variegato mondo della Resistenza italiana. Ha intervistato scrittori, partigiani, staffette, deportati, insegnanti, sorelle, amici e figli dei caduti: persone che non appaiono spesso sulla scena pubblica, ma che continuano quotidianamente a combattere le loro battaglie: nelle scuole, nelle sezioni dell’associazione nazionale Anpi e in tante situazioni delle loro esistenze. Vive il suo impegno civile come una missione?
«Ciò che mi muove, fin da ragazzina, è un forte senso di giustizia. Se si va in giro per Milano, si vedono molte lapidi di morti per la Resistenza. Se si è a Palermo, si notano targhe e monumenti per i caduti di mafia, anche loro, spesso, giovanissimi. Questo aspetto mi ha colpito molto. Ogni volta che mi capitava di vedere quegli omaggi, pensavo che quei nomi non dovessero essere solamente scritti in una via dedicata o scolpiti su una pietra, immobile e silenziosa. Volevo dare una voce a quegli uomini e donne giusti, che hanno continuato a ragionare con la propria testa anche quando non era conveniente. Erano persone di valore che hanno fatto il loro dovere, cosa che adesso ciascuno di noi fatica a fare: nella mentalità comune, oggi, colui che ce la fa è chi aggira le regole, non le rispetta, non si cura del prossimo né del bene comune. È un malcostume culturale, retaggio dei messaggi politici che sono arrivati negli ultimi decenni».

Lei insegna latino e italiano al liceo. Tiene laboratori di educazione alla legalità per bambini. È regista e autrice di diversi documentari e opere teatrali. Le sue attività sono tutte intrecciate le une alle altre. Qual è il principale filo conduttore?
«Parto da un presupposto fondamentale. Quando mi occupo di un progetto – sia con la scrittura o con la macchina da presa – vorrei che tutte le persone che hanno fatto qualcosa per gli altri, e che hanno dato la loro vita per gli altri, fossero ricordate. La memoria è fondamentale. Per me è un diritto sacro e inviolabile. E ai giorni nostri è gravemente minacciata da un preoccupante desiderio di revisionismo. Invece c’è bisogno di riconoscere il merito di chi si è speso in prima linea, non si è voltato dall’altra parte. Noi viviamo nella Storia, che però è fatta di tante piccole storie. Le nostre storie. Ci riguardano eccome».

A questo proposito, nel 2021 ha scritto ‘La montagna capovolta. Le migrazioni narrate ai bambini’ (edito da Gribaudo e illustrato da Cinzia Battistel). Ha affrontato il tema dell’emigrazione degli italiani nel secolo scorso. In particolare, ha ricordato il periodo in cui l’Italia, nel dopoguerra, spedì 64 mila uomini a lavorare nelle miniere di carbone del Belgio, con la promessa di un miraggio, quello di un futuro più roseo. Invece, tante famiglie furono costrette a sopravvivere in mezzo agli stenti e in condizioni disumane. Accaddero eventi tragici, come l’incendio della maniera di Marcinelle che, nell’agosto 1956, causò la morte di 275 uomini.
«Gli italiani arrivavano in quei posti in cerca di fortuna dopo viaggi infiniti e massacranti, stipati in treni merci come quelli su cui erano stati deportati gli ebrei nei lager pochi anni prima. In Belgio, ad attenderli, c’erano case in lamiera, freddissime in inverno e caldissime d’estate. Lavoravano giorno e notte sotto terra, a decine di metri di profondità. Venivano emarginati, derisi e offesi dal resto della società: li chiamavano “maccaronì”, dicevano che puzzavano, che davano fastidio, che rubavano il lavoro e le donne agli uomini del posto. All’epoca eravamo noi “i diversi”, verso cui si scatenavano insofferenze e ostilità. Mi interessava raccontare proprio questo. Il titolo del libro, ‘La montagna capovolta’, fa riferimento a quella che è appunto una miniera. Ma non solo. Ha anche una valenza metaforica: il mio invito è quello di capovolgere la montagna, nel senso di spostare lo sguardo, il punto di vista».

In questo, spesso, si dimostrano più bravi i piccoli rispetto ai grandi? 
«Sì! Scrivo e faccio laboratori coi bambini perché, forse, è l’unico modo per arrivare agli adulti. E, a differenza dei secondi, i primi non sono “inquinati”. Se si spiega loro cos’è la mafia o cos’è il fascismo – di fatto due dittature – i bambini dimostrano di conoscere la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, senza se e senza ma. Mi piace la loro purezza, il fatto che credano ancora in certi ideali e valori e li ricerchino nella realtà che li circonda: l’amicizia, l’amore, la correttezza, la solidarietà. Fanno ben sperare». 

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