Maradona al Letzigrud sdoganò i meridionali in Svizzera

Siamo a Zurigo, stadio Letzigrund, ore 20.15 del 18 ottobre 1989. Tre giorni prima la borsa di Zurigo aveva segnato uno storico tracollo, ribattezzato dalla stampa «lunedì nero». L’attesa era frenetica, nonostante le preoccupazioni finanziarie erano giorni che in città e in gran parte della Svizzera tedesca non si parlava che della partita di andata tra Fc Wettingen, rivelazione di quella edizione, e i campioni in carica della coppa Uefa, il Napoli di Diego Armando Maradona. I biglietti, nonostante il prezzo delle curve fosse di 100 Franchi – una follia per l’epoca –, finirono in pochissime ore. Nessuno voleva perdersi l’evento, soprattutto le migliaia di meridionali, appassionati e tifosi del Napoli, che ormai da più di due decenni erano tra le presenze più numerose nella Confederazione. Già due ora prima del calcio d’inizio i 22.000 posti a disposizione erano strapieni. I tifosi del Wettingen erano non più di 500, gli altri erano tutti italiani giunti per vedere Maradona e per manifestare calcisticamente la loro meridionalità. Non erano solo napoletani o campani, molti arrivarono allo stadio con la sciarpa del Lecce, con la bandiera del Palermo o semplicemente con il tricolore. Alle vittorie di Juve, Milan e Inter erano abituati tutti, ma vedere da vicino la squadra dell’ex capitale borbonica che mieteva in quegli anni successi nel campionato e in Europa non aveva prezzo. In più, il mondiale del 1986 era stato più che vinto dall’Argentina, era il mondiale del suo capitano, che negli anni delle isole Falkland segnò proprio contro l’Inghilterra due dei goal che entreranno nella storia del calcio di tutti i tempi. 

Dagli almanacchi sportivi, la partita a Zurigo fu ricordata per la capacità della squadra svizzera di portare a casa uno storico 0:0 e per la maglietta rossa, sponsor Mars, con la quale scese in campo il Napoli. La partita-evento lasciò l’amaro in bocca. Degni di nota furono lo stop di fondo schiena a centrocampo del numero dieci del Napoli, con cui disorientò l’intero centrocampo del Wettingen, e la traversa colpita dagli svizzeri che salvò l’onore sportivo dei partenopei. Una settimana dopo, il ritorno allo stadio San Paolo finì 2:1 per la squadra di casa che faticosamente riuscì a passare il turno. Chissà se quella sera al Letzigrund c’erano anche due ragazzi, entrambi di origini irpine, che di lì a qualche anno, da naturalizzati, sarebbero scesi in campo con la nazionale elvetica: Ciriaco Sforza, che all’epoca militava tra le fila dell’Aarau e che nella stagione 1996/97 approdò all’Inter, e David Sesa, che proprio l’anno dopo iniziò la sua carriera da professionista nel Fc Zurigo giocando dal 2000 al 2004 tra le fila del Napoli.

Il calcio è una manifestazione sociale che va ben oltre l’attività sportiva, soprattutto in un paese come la Svizzera, in cui risiedono più di due milioni di stranieri su una popolazione complessiva di meno di otto milioni e mezzo di abitanti. Nonostante sia la sede del governo del calcio mondiale, è qui, più che in altri posti, che si riesce a percepire quanto l’identificazione popolare nel calcio – che si rivela nelle bandiere di ogni dove che vengono esposte – sia un processo che va ben oltre lo sport. Per molti, il calcio rappresenta un credo, una passione viscerale, a tratti incomprensibile, quasi un dogma che si trasforma in un elemento identitario senza pari. A partire dagli anni Ottanta, forse addirittura più del cibo, proprio il calcio fu una delle rappresentazioni più diffuse dell’Italian Lifestyle, al punto che durante le partite di calcio tra svizzeri e italiani di seconda generazione, i primi utilizzavano spesso espressioni in lingua italiana. Lo stesso accadeva nei codici linguistici delle seconde generazioni: nonostante parlassero quasi più lo Schwyzerdütsch della lingua materna, durante le dirette delle partite di coppa in cui giocava una squadra italiana, il forte coinvolgimento emotivo lasciava prevalere, appunto, l’italiano.

Come Nino Garofali, alias Nino Manfredi, che in Pane e cioccolata, nonostante si sforzasse di somigliare anche esteticamente allo stereotipo dello svizzero degli anni Settanta, non riuscì a trattenere l’esultanza al raddoppio di Fabio Capello (Italia-Inghilterra, 14 giugno 1973): «Goal! Goal! Goal! Tiè, so italiano eh beh, nun ve sta bene? Toh! Die Hunde [i cani] hanno segnato! Sette a zero finisce ‘sta partita, anche otto se hanno il tempo. Mename, mename, so’ qui per questo». Siamo nella Svizzera degli anni Settanta, l’avversione verso gli italiani era ancora forte e un decennio dopo, proprio il calcio – la vittoria del Mundial ’82 – fu «l’acceleratore delle dinamiche di trasformazione» come ci indicano Sandro Cattacin e Irene Pellegrini.

Se la vittoria del mondiale spagnolo, uno tra gli eventi più mitizzati della storia dello sport italiano, rappresentò, insieme alle trasformazioni degli anni Ottanta, un punto nodale della storica presenza italiana in Svizzera, Maradona segnò il punto di svolta per la comunità di meridionali, ormai prevalenti.

In questi giorni, il mondo tutto, anche chi l’ha criticato per la sua vita sregolata, rende omaggio a Maradona. Si rende omaggio al genio del calcio, al ragazzo che partito dalle favelas argentine, grazie ai suoi piedi, è assurto all’Olimpo degli dei del calcio. Insieme a loro, molte generazioni di italiani e di meridionali rendono omaggio all’unico demone che per la prima volta li fece salire in paradiso.

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