Mediterraneo: contro la criminalizzazione del diverso e del povero

Nel Mediterraneo si consuma da anni un dramma quotidiano, fatto di migranti che annegano, che vengono respinti verso lager dove subiscono ogni genere di maltrattamento, che vengono salvati e sballottati fra vari paesi europei o accolti spesso in luoghi che somigliano più a prigioni che a centri di accoglienza.

Per molti europei questa è diventata una stanca routine che genera solo noia e indifferenza, se non addirittura odio: può accadere talvolta che un evento particolare susciti un attimo di superficiale commozione, destinata tuttavia a durare il tempo di un servizio giornalistico.

La diffusione del coronavirus ha contribuito poi a rendere le nostre società ancora più chiuse e impermeabili al rispetto dei diritti umani e all’accoglienza.

A chi non si rassegna ad accettare la sistematica violazione della dignità di migliaia di esseri umani sembra che resti solo un’indignazione sacrosanta ma sterile e alla fine inutilmente autoconsolatoria.

Chi non vuole arrendersi a questo stato di cose, deve perciò porsi qualche domanda su come uscirne e si rende subito conto che la soluzione dovrebbe venire dalla buona politica, la cui assenza in questi anni è in definitiva la causa principale del degrado attuale.

L’indifferenza, se non addirittura l’ostilità, verso i migranti non sono sempre esistite nella misura attuale nell’opinione pubblica italiana ed europea e sono il frutto anche di una pessima gestione dei fenomeni migratori.

Dato che non è né giusto né possibile fermare le migrazioni, è arrivato il momento di un radicale ripensamento su come gestirle.

Nemmeno la salvaguardia e la dignità di ogni essere umano appaiono oggi garantite mentre questo dovrebbe essere il presupposto indispensabile di ogni intervento politico.

I nodi da sciogliere sono sotto gli occhi di tutti e possono essere affrontati solo in un contesto internazionale.

Ovviamente nessuno ha pronte facili soluzioni, in quanto stiamo parlando di fenomeni che coinvolgono scenari politici internazionali intricatissimi e problemi epocali quali il riscaldamento globale, con le sue letali conseguenze già visibili soprattutto nelle zone più povere del mondo, che nessun Paese da solo può affrontare con successo.

Basti pensare alla situazione della Libia, da cui provengono gran parte dei migranti che cercano di raggiungere le nostre coste: un Paese dilaniato dalla guerra civile, largamente dominato da bande criminali e al centro di conflitti fra potenze che lottano per definire nuovi equilibri nell’area. 

In primo luogo, occorre ripristinare il diritto di ciascuno di inoltrare richiesta di asilo per ottenere lo statuto di rifugiato: l’attuale pratica dei respingimenti di fatto   impedisce l’esercizio di questo diritto previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951.

I respingimenti verso la Libia comportano, fra l’altro, la detenzione dei migranti in veri e propri campi di concentramento in cui vigono condizioni inaccettabili e più volte inutilmente denunciate a vari livelli.

In quest’ottica appare necessario rivedere i trattati di Dublino, che riguardano i paesi dell’Ue ma che sono estesi ad altri Paesi, fra cui la Svizzera, secondo i quali lo Stato cui compete l’esame delle richieste di asilo è quello in cui il richiedente ha fatto ingresso in Europa.

Data l’attuale provenienza della maggior parte dei richiedenti asilo è evidente che il peso dell’accoglienza ricade in gran parte sui Paesi mediterranei, Italia e Grecia in primo luogo.

Il problema dei flussi migratori appare tuttavia più ampio del sacrosanto diritto d’asilo attualmente riconosciuto e la distinzione fra chi fugge da una guerra e chi emigra per sfuggire alla fame risulta insostenibile.

Ovviamente i problemi che affliggono, ad esempio, le zone dell’Africa da cui provengono molti migranti vanno risolti prima di tutto in loco anche con la cooperazione internazionale e con un effettivo “aiuto a casa loro” che non sia un artificio retorico per giustificare l’inerzia.

Tutto questo non può tuttavia cancellare l’esistenza ineliminabile di flussi migratori la cui regolazione potrebbe rivelarsi oltretutto un vantaggio per l’Italia e pe l’Europa.

Se si riconosce questa necessità bisogna allora estendere le vie legali di accesso all’Europa, tagliando le unghie ai mercanti di uomini che si arricchiscono sull’emigrazione clandestina.

Per quanto riguarda l’Italia in particolare è urgente superare il decreto Salvini, ricostituendo   una rete di accoglienza diffusa, basata su piccole unità, che hanno un impatto minore sulle popolazioni interessate e che si prestano meno a quei fenomeni di corruzione che hanno oltretutto fatto il gioco della propaganda xenofoba.

Inoltre, in Italia vivono attualmente più di un milione di minori stranieri, molti dei quali nati in Italia. dove hanno frequentato almeno un ciclo scolastico. La loro completa integrazione tramite la concessione della cittadinanza sarebbe prima di tutto un elementare principio di civiltà e un modo per prevenire la creazione di pericolose sacche di emarginazione e di frustrazione, potenziali terreni di coltura della violenza.

Si tratta poi di forza lavoro giovane, destinata a sostituire gradualmente i lavoratori più anziani e quindi anche a contribuire al mantenimento del nostro sistema di protezione sociale.

Una buona politica richiede naturalmente politici lungimiranti, giustamente attenti a costruire un necessario consenso basato non su emozioni epidermiche ma su efficaci politiche di lungo respiro.

Su questa base sarà possibile superare, anche da un punto di vista culturale, l’attuale deriva per cui ogni migrante è una minaccia per la nostra sicurezza e le Ong che tentano di supplire alle carenze della comunità internazionale sono organizzazioni sovversive e antipatriottiche.

Si tratta di interrompere un processo di criminalizzazione del diverso e del povero che alla fine rischia di avvelenare la nostra anima e di corrodere le nostre democrazie.

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