Metti un panettone a Hong Kong. Storia di un successo

Italiani all’estero, emigrati eccellenti

di Cristina Penco

In foto: Michelangelo Guglielmetti

“Il punto di partenza continua a essere la ricerca della qualità alimentare. Sempre di più vogliamo esportare i fiori all’occhiello della dieta mediterranea. Tento sempre di spingere gli Italiani a uscire dalla comfort zone.  Grazie all’infrastruttura fiscale e burocratica di cui siamo dotati, risulteremmo molto forti all’estero. Tuttavia, finiamo per impantanarci ben prima, e a volte non riusciamo a fare nemmeno un passo. Negli ultimi dieci anni ho visto tante belle occasioni sprecate per pigrizia, per svogliatezza”

Lo scorso Natale, in mezzo alla seconda ondata pandemica e durante un nuovo lockdown, il panettone artigianale milanese è riuscito a sbarcare a Hong Kong, conquistando i palati asiatici. Talmente tanto che, poche settimane fa, nella metropoli d’Oriente, sono arrivati poco più che una cinquantina di pezzi della tradizionale prelibatezza lombarda. E sono andati a ruba nel giro di una settimana, quando la colonnina di mercurio segnava ancora 30 gradi. L’operazione di successo porta la firma di due italiani.

Uno è Matteo Cunsolo, maestro panificatore che gestisce il suo negozio-laboratorio a Parabiago, nell’hinterland milanese, nonché presidente dell’Associazione Panificatori di Milano e Provincia dal 2018 e segretario generale del Richemont Club Italia dal 2013. L’altro è Michelangelo Guglielmetti, imprenditore originario di Legnano, sempre alle porte del capoluogo lombardo, trapiantato in Asia dal 2001: prima in Corea, poi in Cina, infine a Hong Kong, oggi la sua seconda casa, con viaggi frequenti in Malesia, Vietnam, Taiwan e Giappone. Al “Corriere dell’Italianità” Guglielmetti, classe 1975, illustra esperienze e visioni maturate dall’incontro tra le sue radici occidentali e il suo percorso orientale.

Di che cosa si occupa?
«Ho diverse attività, tra cui la distribuzione di prodotti alimentari italiani un po’ di nicchia, di alta qualità, che tramite il canale online Eathic.hk sono venduti a Hong Kong col margine giusto, a prezzi ragionevoli per i consumatori. Occorre tenere conto che invece qui, di solito, si trovano per lo più prodotti da grande distribuzione italiana venduti a prezzi premium. La mia azienda fa supply chain con focus sul settore alimentare. Ma, oltre a fornire eccellenze enogastronomiche made in Italy, e non solo, ci premuriamo di spiegare alle persone come preparare il prodotto in modo semplice, efficace ed efficiente in termini di tempo, e raccontiamo la storia che c’è dietro la sua realizzazione. Una narrazione all’insegna dell’amore, della cura e dell’attenzione per i particolari, sia che si tratti della salsa di pomodoro sia, come nel caso più recente, del panettone».

Com’è nato l’incontro con il maestro panificatore Matteo Cunsolo?
«A settembre scorso mi sono messo a cercare qualcuno che fosse disponibile a esportare il proprio panettone a Hong Kong. Inizialmente mi sono rivolto a grosse aziende produttrici. Nessuna realtà grande o media mi ha risposto. Un giorno, al telefono con mia sorella Marion, per caso ho raccontato delle difficoltà che stavo incontrando per questo progetto. È stata lei a indicarmi Cunsolo e a mettermi in contatto con lui. Ci siamo capiti al volo e siamo partiti. Eravamo già quasi sotto Natale, ma ce l’abbiamo fatta e quest’anno replicheremo».

Su quali altre eccellenze sta lavorando per Eathic.hk?
«Il punto di partenza continua a essere la ricerca della qualità alimentare.Sempre di più vogliamo esportare i fiori all’occhiello della dieta mediterranea. Sto cercando nuovi fornitori anche in Spagna e in Grecia. Stiamo aprendo un sito dedicato solo al gin mediterraneo: sarà pronto in pochi mesi. Abbiamo avuto da poco la licenza doganale per import ed export di alcol sopra i 40 gradi (col Coronavirus abbiamo dovuto aspettare sei mesi per ottenerla). Di recente, inoltre, ho avviato una collaborazione con Giorgio Mastrota, conduttore televisivo e ambassador di MadeinValtellina.it, impegnato a valorizzare selezionate realtà artigianali dell’omonimo territorio. Presto, a Hong Kong, arriveranno anche L’Amaro Braulio e i pizzoccheri».

Sono scambi che puntano a creare sinergie virtuose con ricadute a doppio senso, è così?
«Con questi progetti mi preme anche incoraggiare gli italiani ad adottare mentalità di lavoro, produttività ed efficienza asiatiche. Tento sempre di spingerli a uscire dalla comfort zone. Grazie all’infrastruttura fiscale e burocratica di cui siamo dotati, risulteremmo molto forti all’estero. Tuttavia, finiamo per impantanarci ben prima, e a volte non riusciamo a fare nemmeno un passo. Negli ultimi dieci anni ho visto tante belle occasioni sprecate per pigrizia, per svogliatezza».

Quali sono altri limiti del nostro Paese che ha riscontrato?
«Nella maggior parte dei casi gli imprenditori italiani tendono a investire sui macchinari e non sulle persone, perché il sistema ha portato ad avere paura di assumere risorse umane che costano e che difficilmente possono poi essere rimosse dal loro posto. Un altro problema è che, in genere, fa comodo mantenere le solite abitudini senza doverle cambiare, secondo un andazzo che, in linea di massima, permette al “capo” di andare in vacanza ad agosto e comprare l’auto a Natale, senza far mancare nulla ai propri cari. Ciò che conta per molti, alla fine, è poter “rimanere a galla”, senza troppi scossoni né rinunce. Non viene premiato chi ha voglia di crescere, chi magari mette in luce le criticità per trovare una soluzione e migliorare le cose. Anzi, questo atteggiamento viene vissuto come una scocciatura fastidiosa. Coloro che alzano la testa e si differenziano dalla massa vengono frenati o bloccati. E poi, ancora, c’è un continuo autogiustificarsi collettivo di fronte a certe irregolarità, del tipo: “Cerchiamo di capirci – e coprirci – tutti insieme”. La realtà italiana è un po’ un mix tra la televisione e la provincia, quando il mondo gira su ritmi totalmente diversi, sia sul fronte professionale sia su quello del tempo libero e del divertimento».

Punti di forza e limiti, invece, dell’approccio lavorativo a Hong Kong?
«Chi fa il capo è consapevole che se c’è un problema va risolto e affrontato, per com’è, senza che nessuno prenda nulla sul personale. Non è una questione di muso duro o eccessiva seriosità. È lavoro, punto e basta. In Italia manca questo atteggiamento ed è un vero peccato, a fronte delle molte potenzialità che avremmo. È risaputo, poi, che cinesi e hongkonghesi lavorino sodo. Confermo. Accade perché non hanno certezze, hanno poca assistenza sociale. Tuttavia, allo stesso tempo, chi sta in alto li deve controllare in tutto e per tutto, altrimenti potrebbero non eseguire i compiti. Hanno quasi un atteggiamento di sfida nei confronti dell’autorità. Chi è al vertice, quindi, deve dimostrare quotidianamente non solo di essere il boss, ma di avere anche il controllo della situazione. Per loro, inoltre, è molto facile cambiare lavoro, non c’è lealtà. Dunque, le cose funzionano se crei dei premi di produttività, poni dei sistemi di controllo e costruisci fiducia con le figure chiave. È un sistema più freddo e meccanico rispetto a quello italiano, che è più originale e creativo. Qui conta meno l’elemento personale, ma non sempre è un male. La priorità, in azienda, dovrebbe essere quella per cui ciascuno fa il proprio dovere».

Sentendola parlare si capisce che non devono essere stati semplici i vent’anni in Asia, tra mille difficoltà, ma continua a trasmettere grande entusiasmo per ciò che fa. Dove trova “il carburante”?
«Credo si tratti di indole. Ci sono persone che nascono per arricchirsi e cambiare status sociale – ed è legittimo – mentre altre puntano a realizzare cose e a farle bene. A me spesso non interessa guadagnare o guadagnare tanto, quanto proprio lavorare bene. E di solito, se si lavora bene, si guadagna pure. Dal mio punto di vista non si può avere come obiettivo quello di avere successo. Mi spiego. Uno deve vivere la sua vita e tutti i giorni deve sentirsi appagato. Per me non ci sono frameworks finiti. Finita è una partita di calcio, che inizia, si svolge e si conclude nell’arco di 90 minuti, secondo regole fisse. Ma l’esistenza, il lavoro, sono “giochi infiniti” (il riferimento è al libro “The Infinite Game” di Simon Sinek, ndr). È un continuo essere in movimento. Si può avere avuto l’idea migliore del mondo e poi arriva chi ne ha una ancora più brillante. Quello che per me fa davvero la differenza è l’approccio. È sapere che quotidianamente potrebbero arrivare delle “legnate”. E in quei casi, o si risolvono, o si schivano».

E l’errore, il fallimento, che ruolo hanno nella sua visione?
«Gli insuccessi sono parte integrante. Rientrano in un processo più ampio, che è fatto anche di sbagli, ma sono gli stessi che, alla fine, permettono di costruire un’azienda, così come di creare una famiglia. Sono uno spirito inquieto. Ma se non sei così, se non sei pronto a farti male, non fai l’imprenditore. Devi essere un po’ audace e, se serve, anche avventato. Devi saper rischiare. E assumerti le responsabilità delle tue scelte, altrimenti non vai da nessuna parte».

Matteo Cunsolo

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