Milano e Parigi, ieri come oggi

Gennaio 1991. Io ero a Milano, per le collezioni di moda maschile. Come sempre, alloggiavo all’albergo Cavour, che definivo “mia seconda casa”. Alle sette del mattino, puntualissimo, arrivò il cameriere con colazione e giornali (non vi erano ancora le colazioni “a buffet”).

Accesi “fedele”, l’amatissima radiolina che portavo sempre con me, e sentii la notizia: sembrava che gli Stati Uniti dichiarassero guerra all’Iraq. Accesi anche il televisore: non si parlava d’altro, Mi collegai con la CNN. Le notizie erano tutte sulla guerra. Mi vestii rapidamente e scesi nella hall. Dio! Mi sembrava di assistere a una scena del 1900, quando le legazioni internazionali dovettero scappare in fretta e furia da Pechino per la rivolta dei Boxer.

Valige accatastate, americani che sgomitavano per pagare il conto e che chiamavano i taxi per raggiungere l’aeroporto; i poveri portieri e gli addetti al ricevimento non sapevano più da che parte girarsi, che fare, a chi rispondere. Ore convulse mai viste. Indimenticabili.

Risalii in camera, mi coprii con cappotto e cappello, misi taccuino, penne e registratore in borsa e corsi alla sfilata di Missoni. Anche lì l’atmosfera era tesa: giornalisti e compratori americani erano già partiti, alcuni indossatori – giovani bellissimi – avevano ricevuto da casa la notizia: dovevano partire per la guerra. Non appena terminata la sfilata, sarebbero tornati in America. Rosita Missoni ed io, tristissime, ci scambiammo preoccupazioni. Raggiunsi poi altre due sfilate: atmosfera eguale.

La sera – era il 15 gennaio – sentii che vi sarebbe stata una messa in Duomo per implorare la pace. Dopo i classici rapidissimi “due bocconi” al ristorante, con documenti e registratore in borsa, mi recai rapidamente verso piazza del Duomo, dove trovai una folla già in attesa e uno schieramento di polizia eccezionale: si temevano attentati. Non mi impressionai e raggiunsi il grande portale, dove un poliziotto mi fermò; dopo aver controllato passaporto e tessera di giornalista, mi lasciò passare. Fu commovente, e bellissima, quella messa: c’erano italiani ma anche arabi, ebrei, cinesi, oltre a tanti altri stranieri non ancora partiti; tutti pregavano nei loro idiomi per la pace.

Dopo Milano – come ora – il “circo moda” doveva recarsi a Parigi per la Haute Couture. Partii col vagone letto (partivo dal centro di Milano, sarei arrivata in centro a Parigi). Il treno era semivuoto, a Parigi arrivarono pochissimi giornalisti. Le case editrici, pur dotandoli di assicurazioni, temevano per la loro incolumità; tutt’al più, testate che normalmente avevano otto inviati, si avvalevano di due.

La guerra era cominciata. La capitale francese era semi deserta, nei grandi magazzini di tanto in tanto vi era “l’allerta bomba”, le sirene squillavano: era scattata la fase 2 del piano “Vigi Pirates” antiterrorismo. Le zone dove risiedevano ambasciate e consolati erano transennate, presidiate da militari in assetto di guerra e mezzi cingolati, vi si poteva accedere soltanto se residenti o muniti di lasciapassare speciale, così come nei quartieri ebraico ed arabo. I parigini restavano, di propria volontà, nei loro quartieri, ed era stata fatta incetta di prodotti alimentari.

“Quelle connerie la guerre” (che sciocchezza la guerra): il verso di Prévert, ripreso dai pacifisti, era diventato lo slogan di buona parte dei parigini, mentre altri, per contro, non volevano sentir parlare di conflitto, quasi a esorcizzarlo.

Misure di vigilanza eccezionali rendevano la capitale francese una città in assedio, bloccata dalla sindrome terrorismo. Per accedere alle sfilate d’alta moda – metal detector in azione, controllo accurato di passaporto e borse – si dovevano superare, come a l’Espace Cardin, poliziotti con mitra alla mano; altre strade restavano bloccate per controlli accurati ad automobili ed automobilisti.

Inviavo regolarmente il resoconto delle sfilate ma, più numerosi, pezzi sulla situazione della città e servizi speciali sui quartieri arabo, ebraico, cinese, che riuscii a raggiungere grazie a conoscenti appartenenti a quelle etnie. Mi alzavo molto presto. Una mattina mi recai in Place de la Madeleine: totalmente deserta, non fosse stato per un giornalista con due operatori di un’emittente televisiva. Che sensazione! Il giornalista mi avvicinò, chiedendomi educatamente se poteva intervistarmi sulla situazione attuale. Risposi sì, volentieri, ma… sono una giornalista italiana. Rimasero stupiti: mi credevano una parigina! Ridemmo, malgrado tutto, e risposi alle loro domande.

Aeroporti, stazioni, molti negozi – e soprattutto super mercati e grandi magazzini – erano ultra controllati. Il massimo del calo vendite (70%) era stato toccato sabato 19 gennaio. I soli ristoranti frequentabili erano quelli asiatici, ritenuti neutrali. Versace invitò i pochi “resistenti” in uno di questi, vietnamita, vicino all’Arco di Trionfo. Valentino, invece – tramite Barbara Vitti, sua efficientissima addetta alle pubbliche relazioni – invitò il più che sparuto gruppo italiano e Ornella Muti a casa di Giorgina Brandoli d’Adda, in rue de Rennes, dove arrivammo separati (ci sembrava d’essere dei congiurati), entrando da una porta secondaria, per evitare pericoli. Vi era anche l’Ambasciatore Giacomo Attolico, che riuscii a intervistare (fra l’altro, mi disse che lui stesso era sottoposto a severi controlli quando tornava all’ambasciata!).

Ovunque, peraltro, eravamo i benvenuti, accolti con abbracci, sorrisi, o addirittura – orario permettendo! – con una “coupe de champagne”!

E molto altro vi sarebbe da ricordare, di quella straordinaria Parigi…

***

Febbraio 2020. A Milano vi sono le sfilate del prêt-à-porter femminile

Improvvisamente, in albergo, ci si trova davanti a scene che fanno ricordare in pieno il gennaio ’91. Gli stranieri partono il più rapidamente possibile, mentre il centralino telefonico è subissato da disdette di prenotazioni. Chi, poi, esce si trova in una città sconosciuta, non fosse per monumenti e fabbricati storici. Mai vista così deserta. Impressionante. Piazza del Duomo, poi, fa ricordare Place de la Madeleine: anche il Duomo è chiuso! Chiusi musei, teatri, cinematografi, ristoranti famosi. Ancor prima dei ben noti decreti, il Gruppo Armani, per primo, comunica la chiusura temporanea di tutti i punti vendita, dei ristoranti e dell’Hotel Armani Milano. A seguire, ecco Trussardi che comunica di aver sospeso tutte le sue attività commerciali in Italia, inclusi il Ristorante Trussardi alla Scala e il Caffè Trussardi di Piazza Scala. Poi, via via, tutto il mondo moda si adegua a quanto stabilito dal Governo.

Milano è come la Parigi del ’91.

Parigi, dove – dopo Milano – vi sono le grandi sfilate del prêt-à-porter; e al momento, tutto è normale, le parti si sono invertite. Piazze e vie animatissime, negozi mostre e spettacoli affollati. E così pure ristoranti, brasserie, bistrot, caffè, bar. Sembra totalmente immune al coronavirus, anche se la stampa italiana è meno presente del solito: non come nel ’91, ma quasi… A una sfilata, con la cartella stampa, viene consegnato un comunicato in cui si legge: “Tutta la nostra solidarietà ai colleghi e amici in Asia, in Italia, e nel resto del mondo…”. Un taxista, quando sente che una nostra collega è italiana, non osa farla scendere ma, prima di partire, spruzza se stesso e il taxi di disinfettante. Senza contare le ignobili vignette con la pizza, che hanno provocato indignazione nostra, scuse dal governo francese. Siamo diventati gli “untori”! Quando si riparte, a Parigi tutto è ancora normale.

In Italia, invece, la situazione è sempre più drammatica; si combatte contro un nemico terribile e invisibile. Le città, fino al mese prima superaffollate sono deserte, e via via negozi, alberghi, ristoranti, bar, hanno le serrande abbassate. Le scuole d’ogni ordine e grado chiuse, chiuse le Chiese.

Dopo una settimana, però, anche a Parigi – non per colpa degli italiani! – cominciano le restrizioni… Al momento in cui scrivo – fra ricordi e attualità – mentre sembra che “l’untore primo” sia arrivato dalla Cina in Germania, apprendo che anche nella capitale francese si sono prese sempre più misure anti Covit-19 “sull’esempio italiano”:  chiuse le scuole d’ogni ordine e grado, il Louvre, la Tour Eiffel, Versailles; chiusi negozi, ristoranti e caffè;  gli ultra settantenni invitati a non uscire. Gli “untori” sono ritornati amici: anzi, un esempio. Come in Spagna.

E come dimostrano le infinite iniziative di aziende, di artisti e private, come dicono la carta stampata, gli striscioni appesi a finestre e balconi col tricolore, mentre si sente l’Inno di Mameli: “Tutto andrà bene”, “Ce la faremo”.

Si, ce la faremo. Dobbiamo farcela.

 

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