Nino Cerruti, lo stilista intraprendente

Il mondo della moda, nelle giornate in cui ha visto protagonista l’abbigliamento maschile a Firenze e Milano, è stato colpito dalla scomparsa (il 15 gennaio 2022) –in seguito a complicazioni sorte dopo un’operazione all’anca- di un grande stilista e imprenditore: Nino Cerruti.  Lo conobbi negli anni 50 quando, entrambi giovanissimi, ci affacciavamo nel mondo dell’industria tessile lui, del giornalismo io. Ora lo ricordo con un’intervista che gli feci nel 1974, per il mio primo libro: “I grandi personaggi della moda”.

Ogni qualvolta lo incontro è in compagnia di favolose donne bionde, di fronte alle quali persino B.B. scompare; oppure, di serissimi banchieri dall’aria quanto mai austera: “sia le une che gli altri sono da sedurre” –dice- “con argomenti diversi, per ben diversi motivi”.
Alto un metro e ottantaquattro, grandi occhi azzurri, capelli scuri divisi dalla riga in parte, lineamenti marcati, voce pacata, aria sicura unita ad un che di timido non rivelato che qua e là riaffiora (forse fa parte della sua tattica di seduzione?). Dotato di uno spiccatissimo “sense of humour” (“mi permette di sopravvivere nel mondo d’oggi”, dice), che talvolta rasenta lo spirito goliardico di un tempo, e che gli consente -incredibile! – di fare il pesce al passaggio dell’Equatore (“ah, lei! Sì –gli ha detto proprio un banchiere- me lo ricordo: su di un piatto d’argento, col limone in bocca!”), Cerruti potrebbe essere un attore di gran successo, come Robert Redford o Donald Sutherland, o un campione sportivo.

La sua fotografia è comparsa su numerosi giornali e varie riviste, Playboy compreso, dove viene chiamato ‘Ninò le Roi’. “Non volevo farlo, sono cose che non mi vanno molto, ma pensando al viso delle persone estremamente serie con cui ho contatti di lavoro, la cosa mi ha divertito troppo; l’ho detto subito a Silvia, però”, ha spiegato lo stilista. Di un play-boy, o latin lover, ha senz’altro l’aria: anche se  si tratta di uno dei più giovani dirigenti d’industria, di un uomo che , non ancora ventenne -quando poteva divertirsi, senza preoccupazioni di sorta- si è ritrovato sulle spalle il  peso  -sia pure gradito, ma non facile da portare- di quella “Cerruti 1881” , famosa per  i suoi tessuti di lana in tutto il mondo.

Nato a Biella nel 1930, Nino Cerruti (anzi, Antonio Cerruti, come il nonno: “…i nomi, nella nostra famiglia, vengono tramandati da una generazione all’altra”, sottolineava), terminato il liceo, aveva da poco cominciato gli studi universitari quando la morte del padre gli fece improvvisamente lasciare la facoltà di scienze politiche per la “1881”: essendo il maggiore di quattro fratelli (gli altri tre sono Alberto, Attilio e Fabrizio, occupati poi pure loro nelle varie  attività della ditta) era cosa scontata. A quel tempo il nome di Cerruti era già conosciuto da molti decenni internazionalmente per lo stabilimento tessile di Biella, ma soltanto per quello.

È d’obbligo, quindi, tornare –sia pure rapidamente- sulle varie tappe della carriera “personale” di Nino dagli anni 50 ai 60, quando lo conobbi – durante una visita “di lavoro” al suo stabilimento- fra telai, pezze di stoffa e matasse di lana. E dato che quel “1881” mi dava l’idea di qualcosa di secolare, con relativi dirigenti dai capelli brizzolati se non candidi, mi stupii trovandomi di fronte un uomo tanto giovane. Così come poi dagli anni 60 ai 70, quando lo rividi -senza bionde strepitose o  banchieri, ma con  altre persone autorevolissime- alla premiazione dei concorsi giornalistici internazionali da lui promossi  (devo ammetterlo: fui fra i vincitori) e alle sfilate delle sue collezioni  (nel frattempo era diventato anche stilista) a Parigi,  “Chez  Maxim’s”, con un pubblico da grandi prime  che decretava  -via via nelle stagioni- il successo dello stile “safari”, dell’”unisex”, delle prime giacche portate senza camicia e con foulard al collo. Ma di ciò che aveva fatto, e stava facendo, era interessante parlarne assieme. L’appuntamento venne fissato per una colazione a Milano, da Bagutta.

Chissà quanto si stupiranno oggi –pensai- vedendolo senza una delle strepitose bionde e senza banchieri.  Intanto –considerando i panini che sgranocchiava in attesa delle trenette col pesto- mi resi conto che la sua forma ultraperfetta non era dovuta a diete (forse allo sport, che riteneva “essenziale, importantissimo per i ragazzi: “li aiuta a crescere fisicamente e moralmente”, affermò) e, senza dubbio, al lavoro.

“Come sai -mi disse – ho cominciato a dedicarmi alla ditta nel 50: trattavo i tessili, che tratto tutt’ora, s’intende, ed esporto in tutto il mondo.  Nel 57, ritenendo di poter dire nella moda qualcosa che gli altri non dicevano, e di non doverlo dire in seconda riga come chi tratta i tessuti, ho avviato l’azienda della confezione. Inoltre, sapendo che un discorso interessa quando è completo in tutte le sue varie parti, ho ritenuto che il punto focale per farlo, terminando la storia in modo adeguato, fosse Parigi, dove ho aperto nel 67 la sede in Rue Royale (sede molto bella, ad angolo con place de la Madeleine, n.d.r.). Per me è stato importantissimo dal punto di vista personale e morale. Dire che Parigi è ostile agli stranieri è giusto e sbagliato allo stesso tempo, è giusto dire che è difficile. E non dimentichiamoci che il successo serve per tutelare gli interessi di chi lavora e collabora con noi. A proposito: da quando lavoro anche nella capitale francese tutti mi dicono “chissà che vita fai”. Invece non ho mai lavorato così tanto; anche il giorno di Pasqua, i miei fratelli ed io abbiamo dovuto sgobbare. Vedi, ad esempio, seguo anche l’arte: ma soprattutto di riflesso al lavoro, che è estremamente vario, e ad un certo punto –senza che tu te ne accorga- fa stravolgere ogni cosa in sua funzione. D’altra parte, mi piace, mi entusiasma e questo è un grosso vantaggio, perché mi permette di riprendermi in tre giorni, quando sono stravolto dalla stanchezza. Ed è anche interessante perché, in fondo, il mio lavoro è vecchio come la storia dell’uomo: un modo di esistere e interpretare la propria epoca che va molto al di là di quanto può vedere chi lo consuma, mostrando la maniera di vivere per tradizione, cultura, secoli.

Credo d’essere riuscito in questo intento dato che –con la prima collezione Cerruti, anticipando i tempi- ho presentato quello che ora in America viene chiamato “l’altro vestito”, un punto sul quale si potrà rifare la moda mondiale: su questa strada stiamo proseguendo anche industrialmente e forse, oggi, il nostro nome è il più conosciuto e di successo all’estero. Indubbiamente, nel campo ‘prodotti uomo’ (dall’abbigliamento agli accessori, ai quali aggiungiamo ora anche i profumi, fatti da noi o sotto licenza) rappresentiamo la ‘firma’ più importante in tutti i Paesi ad economia libera, dove vi sono numerosi punti vendita con i nostri prodotti, basati su idea-qualità”.

Continua Nino Cerruti: “La moda? Come sai, generalmente la si considera in un contesto staccato dalla società nella quale vive e si muove. Perché: 1) o ti interessa e la fai; 2) o la adotti e sei al primo stadio -il meno dannoso- dell’individuo appartenente alla società dei consumi; 3) la ritieni deteriore perché non ti rendi conto che è una delle manifestazioni in cui la società si evolve.
A Parigi abbiamo uno studio con più collaboratori e nelle varie aziende vi sono persone che si occupano dei problemi particolari di queste. Per la cartella colori scelgo un pittore che mi piace, studio i toni e le sfumature che più mi interessano. Poi preparo la collezione dei tessuti in base a ciò che desidero venga fatto dopo; quindi, comincio a “buttar giù” i modelli, e partiamo con la realizzazione di golf, camicie e via dicendo. Ricordando che non puoi fare una cosa per re stesso, ma per incontrare il gusto del pubblico. Per il futuro? Quello che Dio mi permetterà di fare”.

Mi venne spontaneo, dopo queste parole, chiedergli: “sei religioso?”

“Sì –mi rispose- ma che strano! Anche a Parigi me l’hanno chiesto”.

Via via, nella nostra conversazione, era anche affiorato il nome di Silvia: con le sue opinioni, la musica e i dischi che amava, la scuola che frequentava e l’aiuto che gli dava con i suoi freschi 14 anni, tenendolo aggiornato sui problemi, i gusti e i desideri dei giovani. Silvia, con tutte le soddisfazioni e le preoccupazioni che può dare un figlio unico.

Questo era Nino Cerruti negli anni 70, colto “al volo” al ritorno dal Giappone –tappe Parigi, Biella, Milano – mentre stava ripartendo per New York: grande personaggio e grande esempio di una generazione.

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