A colloquio con il professor Marco Belpoliti, fra i principali studiosi dell’opera di Primo Levi
Di Luca Bernasconi
Quando risuona il nome di Primo Levi, si pensa quasi d’immediato a Se questo è un uomo, una delle più lucide testimonianze letterarie sullo sterminio ebraico. Eppure, nel corso della sua vita, l’autore nato a Torino il 31 luglio del 1919 ha scritto numerosi altri libri, cimentandosi con moduli narrativi e stilistici molto diversi fra loro. Levi è uno scrittore fecondo e sfaccettato, di cui nel 2019 ricorreva il centenario della nascita. Per tale occasione, la Cattedra De Sanctis del Politecnico federale di Zurigo ha invitato il professor Marco Belpoliti, fra i massimi studiosi delle opere leviane, che ha tenuto un ciclo di lezioni intitolato “La nascita di uno scrittore. Primo Levi e Se questo è un uomo”. Curatore della nuova edizione delle Opere complete dello scrittore torinese in tre volumi (Einaudi, 2016-2017) e autore di Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015), il professor Belpoliti ha tracciato, con mano ferma, sensibile e appassionata, il complesso itinerario di scrittura che ha portato Primo Levi a diventare uno scrittore a tutto tondo e non soltanto lo straordinario testimone del genocidio degli ebrei d’Europa.
Lo abbiamo incontrato per mettere a fuoco alcuni aspetti salienti della personalità letteraria di un autore che finalmente appartiene, a pieno titolo, ai classici del secondo Novecento.
Per moltissimo tempo Primo Levi è stato considerato dalla critica soltanto nella sua veste di testimone e memorialista. Il Suo lungo lavoro a tappeto sugli scritti di Levi ha dato una svolta al modo in cui viene recepito oggi l’autore torinese.
L’idea di affidarmi il lavoro di curatela è venuto a Paolo Fossati che aveva accolto in Einaudi il mio libro L’occhio di Calvino. Andavo ogni tanto in casa editrice e parlavo con Fossati della ricerca che stavo conducendo sugli scritti sparsi di Levi, mai raccolti nelle opere precedenti, compresi alcuni racconti sparsi, e soprattutto sulla sua importanza come scrittore, così poco considerato dalla critica letteraria italiana. Fossati mi ha portato da Ernesto Ferrero, che già conoscevo, perché parecchi anni prima, quando avevo cominciato a pubblicare, aveva letto alcune mie cose e mi aveva chiamato alle Edizioni di Comunità dove lavorava. Ferrero era stato l’editor di Levi negli ultimi anni, o almeno la persona che lo seguiva con altri in Einaudi. Dopo un paio d’incontri con lui, Ferrero mi ha proposto di portare avanti il lavoro come curatore da solo, lui mi avrebbe seguito come editor, ma in realtà ha fatto molto di più. Fossati pensava che io fossi la persona giusta per quel lavoro perché affrontavo Levi come scrittore, e non più, o non solo, come testimone. Il lavoro che ho fatto è stato in questa direzione. Con una battuta una volta mi ha detto: «Non sei ebreo e abiti a più di cento chilometri da Torino». Voleva dire che non avevo pregiudizi nel valutare Levi come scrittore, che non ero legato al suo ebraismo e neppure all’ambiente torinese o piemontese. Nei due decenni successivi Levi è passato da essere considerato un testimone e uno scrittore memorialista, di ascendenze ebraiche e torinesi, a essere un grande scrittore tout court. Credo che quel lavoro sia servito. Non solo quello. Negli anni Cinquanta e Sessanta era nata una generazione di scrittori e studiosi, in cui era maturata una diversa considerazione del suo ruolo di scrittore. Io ho solamente dato voce a quel cambio di stagione.
Primo Levi: non soltanto memorialista, ma scrittore a tutti gli effetti. Quali sono gli aspetti che lo rendono tale?
Levi non è nato scrittore, lo è diventato. Diventa scrittore perché sente l’urgenza di scrivere quella testimonianza, che non è un romanzo, ma certamente un’opera letteraria per la sua caratura, scrittura, stile, per quella sua capacità penetrativa, per la poesia che contiene, per l’ironia e il sarcasmo che affiorano, e per la rabbia, sempre molto misurata, che riversa in quelle pagine. Levi è un autore a tutto tondo, anche umanamente, e lo è diventato di libro in libro, pazientemente, anche perché non aveva pensato di fare lo scrittore, o meglio lo desiderava, ma poi si era laureato in chimica, si era procurato un mestiere che amava molto: era un uomo concreto. Se questo è un uomo era stato ideato come una raccolta di testi che sono stati via via riadattati e montati fino a formare un libro. La sua è stata una vocazione lenta e progressiva, eppure ad ampio raggio se si pensa che durante la stesura di Se questo è un uomo scriveva poesie e racconti di fantascienza, e cresceva dunque insieme a questa pluralità. Aveva molte strade davanti a sé, qualcheduna più ampia, qualcheduna più ristretta; la fortuna di un autore dipende anche sempre da come viene recepito. L’uscita della sua testimonianza nel 1947 non dico che sia caduta nel vuoto, considerato che chi doveva leggerlo e capirlo – l’ambiente degli ex deportati, gli intellettuali e la sinistra – lo aveva fatto, ma di certo il libro non aveva trionfato nell’immediato vincendo premi prestigiosi quali il ‘Campiello’ o lo ‘Strega’. Levi era uno scrittore della domenica. Eppure, piano piano, libro dopo libro, è migliorato diventando più ricco e complesso.
Lei che frequenta in modo assiduo le opere di Levi, quale ritratto delineerebbe dell’autore?
Per tracciare il ritratto di Levi scrittore ho usato l’immagine del poliedro – idea per altro non mia ma rintracciata in un’intervista che gli fece un giornalista. Le innumerevoli sfaccettature che fondano la sua opera ne rendono difficile la comprensione. L’aspetto preponderante rimane ovviamente quello del testimone, ma vi sono poi quelli legati al suo essere uno scrittore breve, un autore di poesia – poco capita e accettata – di narrativa e di fantascienza; è autore di romanzi, saggi, elzeviri e saggi. Non mancano nel suo mosaico creativo le componenti legate alla chimica, alla linguistica, al mondo animale – soprattutto gli insetti ma non solo. La difficoltà a capire Levi deriva precisamente dalla complessità della sua opera, che vive insieme ma che può anche essere scorporata. Primo Levi è un classico del Novecento. Come ebbe a dire Calvino, i classici sono quegli autori che non è necessario aver letto per conoscerli.
Durante le Sue lezioni al Politecnico ha raccontato Primo Levi e la sua opera quasi fosse un parente stretto con il quale intrattiene rapporti di profonda stima e un fecondo dialogo: come si è avvicinato all’autore torinese?
Non credo di essere un parente stretto, semmai un conoscente, anche perché la vita di Primo Levi rimane ancora piena di misteri. Il mio avvicinamento alla sua opera è avvenuto in due tappe. La prima è stata alla scuola media superiore. Ho avuto un professore che era stato deportato in Germania perché, studente universitario, aveva rifiutato, come giovane militare, di collaborare con la Repubblica di Salò. Fu lui a consigliarci di leggere, sul tema della deportazione, Se questo è un uomo. Noi lo leggemmo per conto nostro fuori dalle aule scolastiche. A casa mia c’erano altri libri di Levi, ad esempio quelli dedicati al lavoro come La chiave a stella, che mio padre aveva letto e che io ebbi modo di conoscere. Ma l’incontro forse più significativo risale agli anni Ottanta quando a casa di un amico trovai L’altrui mestiere, un libro che mi aveva molto interessato: sono perciò entrato nell’opera di Levi da una porta laterale perché quell’opera non riguarda il Lager, ma contiene argomenti diversi – dalla chimica alla linguistica passando per i giochi dei bambini. Leggendolo, mi era parso che Levi incarnasse la complessità, tema che a quell’epoca era rappresentato da Palomar di Italo Calvino, libro che andava molto di moda. Io sono invece partito da Primo Levi, di cui ho fatto in seguito una lettura sistematica, durata a lungo.
Come si è sviluppato il suo corpo a corpo con lo scrittore torinese?
Dire “corpo a corpo” mi pare esagerato, nel senso che Levi è un autore che, per i temi trattati ma soprattutto per la sua personalità, impone una certa distanza essendo molto discreto e pudico. In realtà mi sono addentrato nell’opera di Levi, ma mi manca ancora un avvicinamento alla sua persona e al suo modo di essere, benché abbia potuto leggere lettere e documenti privati che non sono stati pubblicati, oltre alle diverse biografie a lui dedicate. Il mio lavoro è consistito prevalentemente nel ricostruire l’origine di alcune tematiche e questioni cruciali, e anche nel capire come siano nati i suoi libri.
Quali sono le particolarità che rendono inconfondibile la voce di Primo Levi?
La ponderatezza, la precisione, la specificità e la concisione. Levi è un maestro di asciuttezza ma al contempo di ricchezza, come mostra una certa consuetudine nell’impiego dell’aggettivazione ternaria, che segnala un’aggiunta o un lieve spostamento di significato. Una voce pacata ma sempre molto precisa; non dice cose a vanvera, non butta là nulla senza averlo ben ponderato, e al tempo stesso mantiene un elemento di complessità: il mondo non è semplice, ma intricato, siamo noi che cerchiamo di semplificare sempre.
Nel corso delle Sue lezioni ha insistito sulle aggiunte che impreziosiscono l’edizione del 1958 di Se questo è un uomo e che riguardano anche la punteggiatura e il ritmo oltre alla scelta accurata delle parole, consigliando per altro una lettura dell’opera al rallentatore…
Ho insegnato anche nelle scuole superiori parecchi anni. Il primo anno feci leggere, in una classe di indirizzo artistico, Pinocchio e Se questo è un uomo. All’ultimo anno chiesi di rileggere il libro di Levi. Gli studenti sostennero che non si trattava dello stesso libro. Si sa che vi sono libri che diventano fondamentali perché li incontriamo in un preciso momento della nostra vita, libri che vengono letti ma non compresi nell’immediato mancando l’esperienza e la sensibilità per coglierne i significati, senza contare che noi stessi cambiamo di anno in anno. Non credo che l’obbligo di certe letture imposto dalla scuola allontani gli studenti dai libri. Forse le imposizioni non sono la migliore via per favorire la lettura, ma alla fine conta che certi testi siano stati letti: meglio leggerli che non leggerli. Spesso gli studenti ripetono di aver riletto certe opere ad anni di distanza e di averne assaporato aspetti che in precedenza erano sfuggiti loro. Nessuno di noi, infatti, afferra mai tutti gli aspetti di un’opera limitandosi a un’unica lettura, ragion per la quale una lettura rallentata che torna sulle stesse cose non può che apportare dei benefici. Io stesso, che avrò letto Se questo è un uomo più di una trentina di volte, ho scoperto nuovi tasselli mentre preparavo il corso per il Politecnico. Certo, nessuno di noi può pensare di vivere attraversando sempre a piedi l’Europa, talvolta è indispensabile usare dei mezzi di trasporto; eppure, in occasioni particolari, è buona prassi incamminarsi su di una strada e seguire il percorso attraverso i sentieri che portano alla meta. La lentezza giova.
Com’è cambiato il paradigma entro cui viene letto Se questo è un uomo?
Prima di tutto è stato considerato un’opera antifascista perché vi si raccontava il Lager. Benché non mancasse l’accentuazione dell’elemento ebraico, esso non era stato portato alle estreme conseguenze anche perché in Israele vi era stata una rimozione di quanto accaduto nei Lager, protrattasi fino al processo del 1961 al gerarca nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme, e sussisteva altresì un senso di colpa da parte degli ebrei sopravvissuti, ai quali le giovani generazioni chiedevano perché non avessero impugnato le armi per ribellarsi. A questo modello interpretativo antifascista ne subentra un altro a partire dal 1958. Levi cambia l’inizio del suo libro rispetto al ’47, parlando di sé come di un partigiano per non essere messo subito al muro: siamo agli inizi della Resistenza, poco dopo l’8 settembre del 1943. All’inizio del ’44 Levi presenta un’immagine diversa in quanto dirà di essere ebreo; verrà infatti deportato come ebreo, ma non finisce nella camera a gas, essendo un chimico, ma in un campo dove è raggruppata una sorta di manodopera ebrea specializzata, sfruttata dai nazisti. Con il passare del tempo si modifica la percezione della sua testimonianza, prevalentemente a partire dagli anni Settanta. Emerge il paradigma “Olocausto”, “Shoah”, per cui Levi diventa lo scrittore dello sterminio ebraico. Lo è ma non è solo questo: il libro si intitola Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo.. voglio dire che l’uomo è il centro della sua riflessione. Diventato l’autore canonico del Giorno della Memoria, bisogna dire che Levi è molto di più di questo. Però la critica che lo ha ignorato, dopo l’ha ricordato soprattutto per questo, ma è ancora limitativo. Si tratta di un autore più complesso.
Quali sono i Suoi pensieri e le Sue emozioni ogni volta che si immerge in un testo di Levi?
È un autore così profondo, pur essendo semplice, diretto, immediato, che spinge chi lo legge a soppesare ogni cosa, ad avere un controllo delle parole quando si scrive: in Levi c’è un aspetto educativo importante, una pedagogia della scrittura, non dichiarata, salvo in qualche articolo di L’altrui mestiere, come quando consiglia a un giovane che intende scrivere di prendere due gatti perché è molto istruttivo osservare gli animali; ecco, in lui c’è anche questa componente di bizzarria. Levi era un uomo con interessi molteplici, strani, a volte persino bizzarri; inoltre ama tra i suoi personaggi quelli più inconsueti, i borderline, come si vede ne La tregua.
Quanto la capacità di osservazione leviana, la sua sensibilità, la sua precisione e attenzione alle minuzie, e il suo sistema analitico di restituire il reale hanno influenzato il Suo modo di percepire e interpretare la realtà nonché di scrivere?
Probabilmente era inevitabile che incontrassi Levi perché in parte era già il mio modo di lavorare. D’altro canto è chiaro che vi sono autori in grado di potenziare la nostra capacità di vedere le cose, mentre ve ne sono altri che entrano nella nostra vita e nelle nostre letture come delle meteore. Nel caso di Levi si è trattato di un atterraggio nella mia sensibilità abbastanza morbido e pian piano pervasivo. Certamente vi sono autori che sento più prossimi al mio modo di recepire il mondo, altri che leggo e studio, ma che sento più lontani forse perché li capisco meno: la nostra capacità ricettiva rispetto al mondo non è poi così ampia, essendoci una banda di oscillazione nella quale Levi vi rientrava già in qualche misura.
“Non c’è solo l’influenza che gli artisti esercitano su altri artisti, ma anche quella che un artista esercita su sé stesso”. Una riflessione di poetica espressa da Paul Valéry, che Lei ha citato al corso. Come la possiamo applicare a Primo Levi?
Quando nel 1947 pubblica Se questo è un uomo, sembra che il libro sia morto, non raggiunge i lettori che si augurava. Viene letto a Torino e in Piemonte, poi si spegne. Lo leggono persone significative come Umberto Saba che subito scrive a Levi per definirlo un libro necessario. Ma non abbandona il libro al suo destino; è determinato per cui in seguito ci ritorna sopra perché vuole ripubblicarlo e ha già in mente non di riscriverlo, ma di correggerlo e di fare soprattutto delle aggiunte. Ha quindi fatto un lavoro di rilettura di sé stesso. L’aspetto interessante è che ci sono degli scrittori in grado di rileggersi come se a scrivere i loro testi fossero altri autori, imparando anche quindi da sé stessi.
Lo scrittore inventa: come si deve però intendere il concetto di invenzione nel caso di Se questo è un uomo?
In Levi c’è un elemento letterario che non è soltanto quello di trovare la frase o l’espressione giusta, ma anche quello di escogitare il sistema per raccontare in modo esemplare, vale a dire comunicabile, preciso e didattico – aggettivo che per lui ha un significato positivo. Questa ricerca non è mai disgiunta dalle altre componenti che fondano il suo lavoro letterario. Levi ha imparato molto dagli autori che ha letto e riletto in modo intensivo.
Fra gli autori amati e citati da Levi figura anche Dante. Perché la sua presenza è così marcata in Se questo è un uomo?
Perché è il padre della lingua italiana, da un lato, dall’altro perché era un autore imposto a scuola, anche piacevolmente, e imparato quindi a memoria. In Levi si trova, oltre alla citazione esplicita, anche una restituzione involontaria dei versi danteschi, soprattutto dell’Inferno, perché, scrivendo, riaffiorano
parole o espressioni di Dante, che hanno plasmato la sua mente negli anni in cui ha frequentato il liceo classico.
Fra le testimonianze sull’Olocausto scritte da mano femminile, spicca Il fumo di Birkenau (1947) di Liana Millu, la cui prefazione è scritta da Primo Levi. Come si possono mettere a confronto le due opere che raccontano l’orrore nazista?
Sono testimonianze di grande pregio letterario entrambe. Ve ne sono pure altre di indiscutibile sensibilità e valore, anche successive. In Levi c’è però un aspetto analitico che lo caratterizza e contraddistingue da altre narrazioni e che deriva dal suo côté scientifico e dalla sua personalità, vale a dire la volontà di capire come funziona il Lager. Levi è uno scrittore antropologo come ha scritto tra i primi Daniele Del Giudice nella prefazione alle Opere nel 1997.
Durante il Suo corso ha mostrato anche il lato parodistico messo in campo da Levi. Come lo dobbiamo intendere?
È uno scrittore che si è alimentato di altri autori, in particolare i classici: Dante, Manzoni, la Bibbia, i testi ebraici, le opere degli autori greci e latini. In Levi troviamo un’istanza ironica e sarcastica, gli piace il rifacimento, anche perché al liceo classico era concesso agli studenti uno spazio espressivo in cui potevano rifare il verso agli autori della tradizione. La parodia è dunque anche un modo con cui si impara a scrivere. Oggigiorno la troviamo ovunque: si è diffusa dapprima a teatro e poi a livello cinematografico e soprattutto televisivo.
All’indomani della morte di Primo Levi, Massimo Mila, un suo amico musicologo, lo definirà, nella Stampa, “un umorista”. Come va letta questa definizione?
Mila coglie l’aspetto dello humor che caratterizza la scrittura leviana già a partire dal primo libro e che sarà vieppiù presente nelle opere successive, soprattutto nei racconti fantascientifici. La carica umoristica è una componente della personalità letteraria di Levi, che ha faticato a essere percepita ed evidenziata dalla critica. Il Lager ha un aspetto in ombra nel quale si annida lo humor: Levi lo intercetta. Dei tedeschi, criticati e messi alla berlina, l’autore sa infatti vedere il lato umoristico della loro ossessione per l’ordine e lo mette nero su bianco. L’umorismo diventa un utile strumento per illuminare certe questioni, mostrando, dell’aspetto problematico, un’altra faccia ancora.
Levi ‘poliedro’ – chimico, poeta, scrittore, narratore, bricoleur, e anche testimone. Quali sono gli aspetti della sua opera che andrebbero ancora messi sotto la lente di ingrandimento?
Sicuramente il tema del rapporto con il potere, la zona grigia, il coinvolgimento con i carnefici, la disponibilità a piegarsi; d’altro canto andrebbe indagata la tematica della valorizzazione della vita nel momento più drammatico che è quello del Campo dove si è predestinati alla selezione, a non sopravvivere. Vi è poi una componente poco esplorata che riguarda il lato umano di Levi e che potrà essere ricavata dalle sue lettere, non ancora pubblicate. Sono convinto che esse contengano un altro aspetto della sua personalità che con il tempo verrà fuori.
Che cosa vorrebbe che ritenesse il pubblico di giovani uomini e donne di scienza, che ha seguito le Sue lezioni?
Che la letteratura è uno strumento altrettanto acuto, sensibile e importante quanto la scienza e la tecnologia. Insegnando, durante la mia permanenza zurighese, a dei tecnologi e a degli aspiranti scienziati, vorrei che facessero loro l’idea della letteratura come patrimonio di fondamentale importanza e utilità anche per chi eserciterà mestieri in ambiti prettamente scientifici. Oggi, a livello dell’istruzione, sta scemando l’attenzione nei confronti delle scienze umane, di cui la letteratura è uno dei tanti aspetti, poiché molte risorse vengono destinate alla sfera tecnologica. Penso che sarebbe invece auspicabile investire risorse economiche, organizzative e strutturali anche nella diffusione dei saperi letterari.
Luca Bernasconi