North Stream 2, il nuovo gasdotto inciampa sul passato

di Marco Nori, CEO di ISOLFIN

Viviamo in un mondo interconnesso ed eventi apparentemente slegati possono celare commistioni o inaspettati rapporti di causa ed effetto. Pensiamo alla pandemia di Sars-Cov-2, dove il dibattito scientifico ha dovuto fare i conti e in alcuni casi cedere il passo alla politica, o alla tergiversata messa in funzione del North Stream 2, il nuovo gasdotto di oltre 12.000 chilometri che ogni anno potrà trasportare, quando verrà messo in funzione, 55 milioni di metri cubi di gas naturale dalla Russia alla rete tedesca passando per il Mar Baltico. Si trattata della seconda grande infrastruttura, dopo la realizzazione del primo North Stream, che ha il compito di trasportare il prezioso idrocarburo dall’ex territorio sovietico al cuore dell’Europa Occidentale senza toccare il suolo delle repubbliche baltiche, della Polonia o dell’Ucraina e quindi escludendole anche politicamente dal dibattito.

L’opera era pronta nelle ultime settimane del 2021. Poi è arrivato lo stallo politico: per essere conforme alla normativa europea, il consorzio North Stream 2, con sede in Svizzera a Zugo, avrebbe dovuto aprire una filiale in Germania. Non voglio certo addentrami in ragionamenti che appartengono alla politica. Ma senza scomodare le dispute sulle regole, era evidente che sull’entrata in funzione di una infrastruttura strategica come questa pesava tutta la tensione accumulata negli anni tra Russia e Nato, oggi venuta a galla con la crisi che si consuma in Ucraina, eletta a terreno di scontro.

Quanto effettivamente sia pericoloso lo scontro attuale è riconducibile, come spesso avviene, ai fattori economici. Settimane fa l’Economist calcolava chi avrebbe perso di più da un’eventuale interruzione improvvisa delle forniture di gas russo all’Europa. La risposta è chiara: tutti e due, ma non tragicamente. L’Europa è dipendente dall’energia russa in maniera significativa, ma nel medio periodo ha scorte a sufficienza per reggere l’urto. Lo stesso vale per la Russia, che, non dimentichiamolo, ha un solo cliente, l’Europa, che finanzia quasi il 40% del budget intero della Russia. Ma la banca centrale di Mosca ha riserve di liquidità ampiamente sufficienti nel medio periodo.

Qui viene la parte difficile: stabilita la meta, le parti in causa devono trovare l’accordo per superare le salite, affrontare con prudenza le discese più pericolose e soccorrere chi, inevitabilmente, possa accusare qualche ritardo. Economia, politica e comunità devono necessariamente condividere le strategie. Ma ognuno deve ricoprire il proprio ruolo mettendo in campo le proprie competenze ed evitando, al tempo stesso, controproducenti «invasioni di campo» che finirebbero per penalizzare un po’ tutti.

Sono un imprenditore e non è mio compito improvvisarmi giudice in controversie internazionali che hanno radici in un passato sepolto dal tempo ma che, evidentemente, conserva ancora la pressione sufficiente per smuovere la superficie. La crisi energetica che oggi tocca duramente il vecchio continente è dovuta a diversi fattori. Dai cambiamenti climatici alla ripresa della produzione post pandemia, passando per le politiche ambientali incerte che stabiliscono obiettivi e condannano le tecnologie ritenute obsolete, ma non segnano una chiara rotta da seguire. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Tutto costa di più. E c’è il rischio che il baricentro della produzione industriale si sposti ancor di più lontano dall’Europa.

Il congelamento del nuovo gasdotto del Baltico, certamente, non semplifica il percorso. E non possiamo permetterci di inciampare in un passato che credevamo sepolto ma che, nei momenti più inopportuni, torni a far tremare la terra sotto i nostri piedi.

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