Omobitransfobia: la tolleranza repressiva in Italia

Questa estate si inizierà a discutere della proposta di legge “Zan” (dal suo relatore del Partito Democratico Alessandro Zan) su omobitransfobia e misoginia.

L’iter della nuova legge per chi discrimina e commette reati d’odio contro donne, gay, bisessuali, lesbiche e trans è finalmente stato avviato.

Il testo è stato depositato il 30 giugno alla Camera dei deputati, dopo 25 anni di dibattiti, sei tentativi parlamentari che sono stati sempre avversati dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana), e sarà prevista una pena fino a quattro anni di detenzione. Rispetto ai precedenti tentativi c’è l’introduzione del reato di “misoginia”, ossia di odio contro le donne. Se la legge verrà approvata, ai due articoli del Codice penale (604 bis e 604 ter) della legge Mancino, sarà aggiunto come reato la discriminazione basata su orientamento sessuale, identità di genere e violenza di genere.

Per quanto riguarda la storia dell’omosessualità, in Italia è stata caratterizzata da quella che i sociologi chiamano “tolleranza repressiva”, rispolverando una vecchia definizione di Herbert Marcuse. Si può sintetizzare così: non è vero che tutto ciò che non è reato è permesso. Al contrario, l’assenza di una norma, a volte, non significa libertà ma solo repressione. Lo sanno bene i parlamentari nostrani che, a differenza di quanto accaduto in Francia, Germania, Regno Unito, non hanno mai approvato una legislazione punitiva contro gli omosessuali. A spiegarne il perché ci pensò il ministro di Giustizia Giuseppe Zanardelli, autore di un nuovo Codice penale per l’Italia unita nel 1889: contro l’omosessualità, «riesce più utile l’ignoranza del vizio», aveva detto: l’Italia diventava paradossalmente uno dei primi Paesi europei e occidentali a decriminalizzarla.

Continuarono processi e persecuzioni sottobanco a chi si “macchiava” di “oscenità” in luogo pubblico, che per lungo tempo nello Stivale rientravano nella morale comune. Questa mancanza di criminalizzazione favorì un certo tipo di turismo per decenni nel nostro Paese. Ad esempio, l’isola di Capri condivide con Venezia, Firenze, Napoli e Taormina il ruolo di destinazione prediletta dal turismo omosessuale ottocentesco in Italia, specialmente da quei borghesi e nobili dei Paesi del Nord Europa dove rischiavano lavori forzati e carcere. Il massimo sviluppo di tale fenomeno si ebbe durante la Belle époque, a cui pose fine la Prima guerra mondiale, con un brusco declino nel periodo fra le due guerre, nel quale il turismo omosessuale clandestino divenne sempre meno rilevante, fino al crescente turismo di massa degli anni ‘60 e cessò quando negli anni ‘70 si diffuse anche nel Bel Paese l’associazionismo LGBT. Il massimo attivista gay ed ebreo italiano di inizio Novecento fu senza dubbio Aldo Mieli, oggi perlopiù sconosciuto, sessuologo che partecipò nel primo dopoguerra a conferenze sessuali a Berlino e dovette abbandonare l’Italia dopo la Marcia su Roma.

Neanche sotto la dittatura fascista vennero presi provvedimenti generali contro il “vizio”. Quando a Mussolini venne chiesto come mai gli “invertiti” non fossero perseguiti dal nuovo Codice penale fascista di Alfredo Rocco del 1930, rispose che «quei fenomeni non vanno pubblicizzati neppure attraverso l’indizione di sanzioni e che bastavano le mani, anzi i piedi, degli squadristi». Infatti, alcuni omosessuali vennero perseguitati e mandati al confino, anche per il loro orientamento, sempre rifacendosi alle normative contro l’osceno e per l’ordine pubblico. Basti pensare al confinamento di 45 uomini siciliani all’isola di San Domino, alle Tremiti, nel 1938. Oppure, sempre negli stessi anni, la persecuzione degli omosessuali nella Provincia di Catania ad opera del zelante questore fascista Alfonso Molina. Questi compì raid in abitazioni private e inviò di punto in bianco al confino 20 omosessuali di Catania e 9 di Paternò, definendoli gente pericolosissima per l’ordine sociale. Individuato il presunto omosessuale, si procedeva al fermo e all’arresto. In Sicilia, dopo l’arrivo degli Alleati, Molina perse la sua carica acquistandone però una nuova. Divenne, infatti, ispettore generale di Pubblica sicurezza per la Sicilia orientale, fino a quando il giudizio dell’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo lo sottopose a giudizio da cui però risultò prosciolto. Gli furono conferite anche due medaglie al valor civile «per l’alto senso del dovere e ardimento» dimostrato durante i bombardamenti. Dimenticanze della storia e cambi di divisa.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la tolleranza repressiva fascista si fa meno “tollerante”. Il 4 settembre 1940 Mussolini istituì 43 campi di internamento per cittadini di Paesi nemici in cui internò antifascisti, omosessuali, zingari, ebrei e stranieri presenti in Italia. In ogni regione italiana c’era almeno un campo, anche a Favignana, Lipari e Ustica. Con l’armistizio e la costituzione della Repubblica di Salò, i nazisti nell’Italia occupata introdussero formalmente le loro stesse leggi razziali e sessuali, che prevedevano la repressione dell’elemento omosessuale, sebbene risultava più importante reprimerlo o “correggerlo” tra i componenti della “razza ariana”, anziché tra i sudditi di Paesi occupati.

Neanche tra taluni antifascisti c’era maggiore tolleranza. Il pittore Filippo De Pisis, per esempio, nell’aprile 1945, per festeggiare la Liberazione, decide di organizzare nel suo giardino a Venezia una serata musicale, invitando decine di uomini, «tutti bellissimi», i cui corpi sarebbero stati dipinti da lui stesso. L’evento viene interrotto bruscamente, quando un gruppo di partigiani comunisti irrompe nel palazzo grazie a una “soffiata”. Accusati di “mollezza borghese”, i partecipanti sono scortati in questura, prima di subire un interrogatorio alternato a scherno. De Pisis è incarcerato per due notti, non ha commesso alcun reato, ma prima della scarcerazione gli viene ammonito di non organizzare più “orge del genere”. Nell’Italia del secondo dopoguerra non viene emanata alcuna legge anti-sodomia. Al riguardo, la nuova Repubblica democratica decide di mantenere intatte tutte le forme di contenimento poliziesco del fascismo: le denunce per corruzione di minori durano fino al 1975, i fermi cautelativi, le schedature, i fogli di via, ecc. Quando nel 1951, l’astro nascente del cinema Ermanno Randi venne ucciso per gelosia dal suo compagno, il caso di cronaca venne derubricato a “morsa del vizio”.

Le direttive del ministro dell’Interno Giuseppe Spataro (Democrazia Cristiana) nel 1960 erano chiarissime: occorre «evitare il dilagare di tristi forme di perversione» con la repressione. La magistratura è della stessa opinione, soprattutto in concomitanza con lo scandalo dei “balletti verdi”: una serie di feste omosessuali a Brescia finirono al centro di un’inchiesta e divennero uno scandalo che coinvolse 180 persone, trasformandosi in un caso politico.

L’anno dopo, uno dei primi moderni tentativi di criminalizzare l’omosessualità in Italia arriva da un partito di centrosinistra, il PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano). Il deputato Bruno Romano presenta al Parlamento una proposta di legge contro l’omosessualità, letteralmente «Norme integrative del Codice penale per la repressione della condotta omosessuale». Alla fine però, non venne mai messa all’ordine del giorno. Nel governo ebbe evidentemente la meglio un riflesso conservatore che spinse a non deviare dalla vecchia linea cattolica: meglio soffocare gli scandali che fomentarli.

Neppure il Sessantotto e la prima rivolta di Stonewall (di cui quest’anno ricorre il 51° anniversario) di New York cambiarono molto la società italiana. Gli “amori capovolti” in Italia rimasero al buio, anche in politica. Di omosessuali ce n’erano sia nella DC che in tutti gli altri partiti, raccontò il funzionario cattolico Aldo Sebastiani, noto per le sue amicizie vaticane, ma si doveva mantenere la discrezione. Anche a sinistra, ricordava Pier Paolo Pasolini, la tolleranza era solo nominale. Il regista e scrittore del documentario sui costumi sessuali degli italiani negli anni ‘60 ‘Comizi d’amore’ aveva un’opinione ferma: «Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che si condanni. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata.»

Occorre aspettare il 1971 per tentare di scardinare i binari di un rigido perbenismo sociale: a Torino, il libraio Angelo Pezzana fonda la rivista e il movimento Fuori!, acronimo di Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano. Si tratta del primo movimento contemporaneo che rivendica i diritti LGBT in Italia. I comunisti restano su posizioni simili a quelle democristiane: da qualunque parte la si veda, Pasolini è stato ucciso perché se l’è cercata, essendo “solito” andare con prostituti minorenni. Arriviamo ai nostri giorni. Col delitto di Giarre nel 1980, in Sicilia, in cui due giovani omosessuali erano stati assassinati a colpi di pistola, come reazione a Palermo, a Bologna, e poi nel resto d’Italia nacque Arcigay, ancora oggi principale associazione LGBT italiana.

Il 5 aprile 1972 avvenne un importante presidio di omosessuali guidato da Mario Mieli contro una conferenza anti-omosessuale al Casinò di Sanremo, venne ribattezzata la “Stonewall italiana”. E poi nel 1982 venne legalizzato in Italia il cambio di genere per le persone transessuali, anche per sensibilizzazione dei Radicali e del Movimento Identità Trans.

Nel 1983, un sondaggio ISTAT pubblicato su La Stampa rivelò che il 56% degli italiani di allora considerava ancora una malattia l’omosessualità (trent’anni dopo scesero al 25%) e vedeva in modo peggiore prostituzione (65%) e film pornografici (60%) rispetto alle molestie sui bambini (57%). Solamente il 39% avrebbe accettato un figlio gay, a fronte del 25% che l’avrebbe sottoposto a “terapie riparative” e il 22% ci avrebbe troncato ogni rapporto. Il 33% era a favore dell’introduzione del reato di omosessualità e il 15% avrebbe voluto una legge per impedire l’assunzione di LGBT in certi posti di lavoro.

La prima proposta di legge contro la discriminazione per orientamento sessuale venne presentata oltre un decennio dopo, da Nichi Vendola, nel 1996, senza mai essere presa in considerazione. Nel 2006 nemmeno le sollecitazioni dell’Unione Europea erano riuscite a smuovere le acque. Nel 2013 ci aveva riprovato un altro deputato del PD, Ivan Scalfarotto, sebbene il suo ddl fosse ritenuto blando. Ora finalmente sembriamo essere arrivati ad un punto di svolta. L’approvazione delle unioni civili e delle convivenze registrate nel 2016 ha impresso un deciso cambio di rotta culturale. In Italia le difficoltà incontrate da una legge contro l’omofobia sono dovute all’ostruzionismo della destra e delle associazioni religiose. Come già detto, la modifica legislativa affiancherebbe alla discriminazione razziale e religiosa le discriminazioni basate “sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”, ma non interverrebbe sulla propaganda.

Il ddl prevede inoltre rilevazioni statistiche per il monitoraggio degli episodi di discriminazione a violenza. Senza una legge contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia è impossibile avere un monitoraggio attendibile. Ad oggi la raccolta di dati relativi a questi fenomeni è affidata alle associazioni specifiche, che a loro volta ricavano queste informazioni dai fatti di cronaca e dalle denunce. Le rilevazioni statistiche previste dal decreto assicurerebbero una più efficacie raccolta di informazioni su individui esposti al rischio di violenza e discriminazione e faciliterebbero la progettazione di politiche pubbliche che contrastino il fenomeno.

Questa legge serve eccome. In Italia non esiste nessuna norma che tuteli gli individui sulla base della loro identità di genere o dell’orientamento sessuale. Si prevede una “Giornata contro l’Omobitransfobia”, la creazione su tutto il territorio nazionale di centri contro le discriminazioni, l’obbligo di tenere delle statistiche sui casi di discriminazione e aggressioni violente e di elaborare un piano triennale di azione preventiva, tutta questa parte che si va ad aggiungere all’originario impianto di mera estensione della Legge Mancino è positiva. Come ha spiegato Zan in un’intervista, esiste una «irrazionale differenza» tra «l’apporre uno striscione gravemente razzista in uno stadio e l’apporre il medesimo striscione nei confronti delle persone omosessuali». Nel primo caso si incorrerebbe infatti in un procedimento giuridico. Nel secondo invece si tratterebbe solo di una manifestazione della libertà di pensiero, siccome ad oggi l’omofobia, la bifobia e la transfobia non sono qualificati come reati d’odio contro la persona.

Condannando anche i crimini d’odio, infine, questa legge può rappresentare uno strumento fondamentale per arginare anche il sessismo e la misoginia. Lo stesso Zan ha aggiunto: «Non si sanzioneranno le idee. Intanto c’è un principio stabilito dalla nostra Costituzione che è l’articolo 21 che sancisce la libertà di espressione. È chiaro, però, che la libertà di espressione non è un valore assoluto, perché trova un limite, un punto di freno, un confine, nel momento in cui va a intaccare altri valori costituzionali, come la dignità della persona. Chi sostiene che questo ddl limiti la libertà di espressione si preoccupa di dirlo solo quando la legge interviene solo per una tutela rafforzata delle persone LGBT. Se un ampliamento per l’omobitransfobia è sbagliato, allora bisognerebbe cancellare la legge Mancino tout-court. Ma nessuno osa eliminare una legge che punisce i reati d’odio per razzismo.»

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