Pd-5Stelle, ovvero il ritorno di fuoco della socialdemocrazia

Sull’intesa tra Movimento 5Stelle e Pd, i critici si sono spesi vagliando ogni possibile prospettiva. Meno una: ovvero che invece di essere il semplice prodotto di logiche di palazzo, l’alleanza possa rappresentare la naturale evoluzione della parabola politica dei 5Stelle.

Prendiamo per un attimo come bussola l’intuizione di Walter Benjamin, recentemente ripresa dal filosofo Slavoj Zizek per spiegare l’ascesa dell’Isis in Medioriente: “Ogni ascesa del fascismo è un fallimento della sinistra ma al tempo stesso reca testimonianza di una rivoluzione fallita”. Ora, con gli opportuni aggiustamenti, proviamo a calibrare la massima entro il contesto di una politica italiana che cambia, assieme all’Europa, nel nome di un liberalismo sempre più liberista e sempre meno socialdemocratico. Dove il fascismo di Benjamin lascia il posto alla spinta sovranista e – di converso – la rivoluzione fallita fa capo a un welfare state schiacciato e vinto dall’ideologia dello Stato minimo. Tanto che anche il più piccolo accenno a misure assistenzialiste, basta ad invocare lo spettro del ritorno del comunismo. No, non è una battuta. L’ex presidente Silvio Berlusconi l’ha detto per davvero: “Al governo ci sono quattro partiti comunisti, tra cui i 5Stelle: sono il peggio del peggio. Questa è gente che sostiene davvero la decrescita felice. E’ quello che il comunismo diceva da sempre: vogliono togliere soldi a chi ce li ha per darli a chi non ce li ha”.

Ebbene, è in questo brodo culturale (non esattamente edificante, ma tant’è) che si inserisce la nostra analisi: Il Movimento 5 Stelle ha potuto prosperare in Italia esattamente per l’assenza di una sinistra socialdemocratica, il cui ritorno sulla scena ne sancirebbe al contempo, la vittoria e la fine. E’ una tesi forte, ne siamo consapevoli, che presta il fianco a un’opportuna contro-argomentazione. “Perché – si dirà allora – i 5Stelle si sono alleati con la Lega di Salvini?”. Semplice: perché il Pd già aveva imboccato quella parabola che lo ha portato, sotto la guida di Matteo Renzi – non a caso soprannominato il Rottamatore – a rompere ogni legame del passato per attrezzarsi a diventare un partito d’élite più sensibile alla grande industria e alla finanza che alla piccola imprenditoria borghese e all’operaio qualificato (la cosiddetta classe media). Una trasformazione che – oggi possiamo ben dirlo – sul campo ha lasciato diverse vittime illustri (Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema su tutti), ma anche un enorme consenso popolare, oggi meno che dimezzato rispetto ai tempi d’oro delle Europee 2014, quando il Pd fece registrare il 41% dei consensi. Ora che il vento è cambiato, con il segretario Nicola Zingaretti a farsi portatore di un “ritorno al futuro”, il partito non può che ripartire con un’inversione a U, ma da un magro 20% (secondo gli ultimi sondaggi). Carlo Calenda, pur in rotta con il Pd dopo il raggiungimento dell’accordo con i 5Stelle, non ha usato mezzi termini per un’autocritica che potrebbe estendersi, per osmosi, anche a diversi ex compagni di partito: “Per 30 anni, sul liberismo, ho ripetuto cazzate. E poi si dice che vincono i sovranisti (Fonte: Huffington Post)”. Già, esattamente quei sovranisti che hanno approvato Quota 100, creando posti di lavoro attraverso lo sblocco del turnover nelle PA, e reddito di cittadinanza. Misure espansive per un’economia che ristagna, in pieno spirito socialdemocratico e keynesiano. Esattamente quello che le classi popolari si aspettavano. Non è un caso dunque che oggi, nei sondaggi, la Lega venga data alle stelle, oltre il 30%. La percezione, nell’opinione pubblica, è che il traino del Pd possa dirigere la vocazione populista dei 5Stelle verso una visione più monetarista e attenta al bilancio. A partire dall’aumento dell’Iva (che i politici al governo preferiscono chiamare “rimodulazione”).

Ma con rapporti di forza pressoché alla pari, potrebbe rivelarsi vero anche il contrario. Con i 5Stelle a spostare nuovamente il baricentro del Pd verso sinistra. Verso una politica di riparazione alle storture di un mercato sempre più iniquo; verso uno stato più interventista nelle direzioni di sviluppo industriale; verso un welfare che preservi il valore pubblico di alcuni settori chiave, dalla sanità alla scuola e non dimentichi che il fine ultimo della funzione pubblica va oltre le logiche di profitto. Se questa lezione verrà colta, allora, a fallire non sarà più la rivoluzione dell’universalismo socialista cara a Benjamin, ma piuttosto la revanche sovranista, nata dalle ceneri della prima. E i 5Stelle avranno, al contempo, assolto al loro compito storico: portare la propria spinta populista a compiersi in una società che, del populismo, non ha più bisogno.

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