Per uno Stato che si occupi degli altri

La pandemia causata dal COVID-19 ha riacceso la polemica sui tagli alla sanità pubblica, sul ruolo dell’industria farmaceutica e la (scadente) gestione dell’emergenza connessa a interessi economici. Lo Stato, che è sempre più chiamato a tutelare i cittadini con ingenti finanziamenti economici – al punto che c’è chi già grida la morte del capitalismo – sarà in grado di operare in modo da non inasprire le disuguaglianze sociali (anche quelle legate all’istruzione) e di sostenere scelte economiche nel rispetto dell’ecosistema? Ne abbiamo parlato con il Professor Franco Cavalli, medico oncologo ed ex consigliere nazionale ticinese del PS.

Professor Cavalli, partirei da un’affermazione “scientifica”, che abbiamo letto e sentito parecchie volte ormai: una pandemia come quella attuale era prevedibile… 

Purtroppo è così. Dopo l’epidemia conosciuta come SARS nel 2003, era chiaro alla comunità scientifica che un virus dal potenziale pandemico si sarebbe diffuso; per quanto non fosse possibile determinare con esattezza quando, si sapeva che non si parlava di un futuro remoto. Tanto è vero che erano stati avviati studi preparatori per sviluppare un vaccino polivalente contro i virus corona, alla cui famiglia il COVID-19 appartiene. Furono investiti 400 milioni di dollari nella ricerca, ma tutto si arenò poiché l’industria farmaceutica non ne perseguì lo sviluppo. Semplicemente non generava sufficiente profitto.

La prevedibilità del virus dunque si è scontrata con la legge del mercato che ha influito, negativamente, sull’adeguatezza a fronteggiare la pandemia?

Non solo. A mio avviso l’analisi della situazione drammatica, nella quale ci troviamo, diventa semplicistica se non si prenda in considerazione anche la responsabilità degli Stati. Basta ricordare che nel 2008 la crisi finanziaria portò a un indebitamento degli Stati che, per fronteggiare la situazione, svendettero anche mascherine e disinfettanti! Gli ospedali, poi, sempre più deprivati di finanziamenti statali, si sono trasformati in aziende volte al profitto. Questo ha influenzato notevolmente la scelta di dare la priorità a procedure mediche più redditizie, come operazioni al ginocchio o all’anca, mentre i reparti di terapia intensiva sono stati ridotti. Il risultato è stato che ci siamo trovati ad affrontare la pandemia causata dal COVID-19 con strutture mediche meno preparate, per quanto riguarda le terapie intensive, rispetto a una decina di anni fa.

È una situazione generalizzata, quella dei tagli alla sanità, che riguarda molti Paesi, dall’Italia agli Stati Uniti, passando per il Belgio, la Francia, la Spagna e il Portogallo. E la strutturale debolezza della sanità pubblica, che stiamo “scoprendo” in queste settimane, vale anche per altri servizi: l’istruzione, la ricerca, i trasporti, ad esempio. È la crisi del capitalismo, del libero scambismo, della globalizzazione?

È evidente che l’intensificazione dei traffici commerciali e l’accresciuto movimento di persone e beni abbiano accelerato la diffusione del virus. La stessa Lombardia, drammaticamente colpita dal coronavirus è anche un regione profondamente legata, dal punto di vista commerciale, alla Cina. Dalla Lombardia partono e arrivano merci da e per l’Oriente. Difficile asserire se la pandemia segnerà la fine della globalizzazione, ma certamente impone una riflessione sulle conseguenze di un mondo dove la filiera produttiva è fortemente delocalizzata.

La globalizzazione invita a un ripensamento del mercato e impone una riflessione sul ruolo dello Stato.

In molti guardano all’intervento statale e invocano una maggior presenza dello Stato nella gestione della pandemia, anche dal punto di vista economico.

Lo Stato oggi si presenta come l’unico attore in grado di finanziare, sovvenzionare e aiutare con misure economiche e investimenti ingenti. La situazione attuale mi ricorda quella vissuta negli anni precedenti al New Deal, che si rese necessario proprio per risollevare gli Stati Uniti dalla grande depressione che aveva travolto il Paese. La mia preoccupazione non riguarda tanto la presenza dello Stato, quanto come quest’ultimo sceglierà di essere presente. Torno alla già citata crisi finanziaria del 2008: assistemmo a ingenti misure statali salva-banche, che però risultarono in accresciute disuguaglianze sociali. Oggi, gli Stati saranno capaci di prendere misure a tutela di tutte le fasce, anche le più povere, e saranno sufficientemente lungimiranti da vedere il nesso tra economia, nel presente, e ambiente, in futuro? Faccio un esempio: la Svizzera ha versato alla compagna aerea Swiss un miliardo e mezzo di franchi senza alcun vincolo. Ricordo invece che, in altri Paesi, i governi hanno posto condizioni ben chiare alle compagnie aeree per beneficiare di aiuti statali. In Olanda, ad esempio, è stato chiesto l’impegno a ridurre del 15% il numero dei voli. Il caso svizzero mi pare esemplificativo della forza degli interessi economici a discapito di un programma più lungimirante attento a un rinnovato equilibrio tra uomo e Natura, e non guidato dagli interessi di pochi.

Parlando di disuguaglianze sociali, corriamo il rischio di un’esplosione della povertà educativa, laddove il coronavirus costringa molte famiglie a privilegiare il sostentamento immediato all’investimento nell’istruzione?

Questo problema è reale, in Italia – purtroppo – più che in Svizzera, dove la situazione finanziaria statale non soffre dell’esorbitante debito pubblico con il quale è confrontata la vicina Penisola. Tuttavia anche in Svizzera assistiamo a un calo dei contribuiti da parte di privati e fondazioni. Dunque torniamo di nuovo al ruolo delle Stato, del quale si è detto in precedenza. Oggi gli investimenti statali sono gli unici che possono garantire una certa sicurezza.

Che dire dei finanziamenti per la ricerca provenienti da ditte farmaceutiche?

Le case farmaceutiche legano i loro investimenti a prodotti che possono generare profitto. Pensiamo ai medicinali per la cura del cancro: il costo di questi medicinali va da 100 a 120mila euro all’anno per paziente. Nessuno Stato può sostenere a lungo questi costi, ma la forza delle lobby farmaceutiche è evidente. In oncologia il problema risiede negli Stati Uniti, che rappresentano il 60% del mercato. I presidenti repubblicani hanno abolito tutte le leggi che permettevano allo Stato di esercitare un certo controllo sul costo del farmaco, e oggi alle ditte farmaceutiche è dato di fare il prezzo che vogliono. Il prezzo fissato sul mercato americano diventa quello di riferimento a livello mondiale. Accade anche che le compagnie farmaceutiche acquisiscano i diritti di un farmaco di cui sta per scadere il brevetto, per alzare poi il prezzo e rivendere il farmaco al doppio o triplo del valore originario. Anche là dove del farmaco esista un equivalente generico, le lobby sono talmente forti da far pressione alla Politica scoraggiando l’utilizzo di generici meno costosi, per quanto equivalenti. E i poveri, siano essi i Paesi in via di sviluppo o le persone in difficoltà economica, sono quasi automaticamente esclusi dalle cure.

Le case farmaceutiche perseguono il profitto e i poveri sono esclusi dalle cure.

A meno che l’agire medico non venga messo a disposizione di iniziative guidate dall’ideale di solidarietà e giustizia sociale – e questo è quello che cerca di fare l’associazione AMCA per l’aiuto medico al Centro America, da lei creata 35 anni fa. Ce ne vuole parlare?

Con i suoi progetti sanitari e sociali, AMCA si impegna in interventi diretti al sostegno di due delle fasce più deboli della popolazione: le donne e i bambini. Negli anni abbiamo creato un reparto dedicato all’Oncologia pediatrica, alla cura dei tumori ginecologici, alla neonatologia. Desideriamo garantire il libero accesso alla salute e all’educazione, che non è solo un diritto primario dell’infanzia e di tutti, ma anche un indicatore del grado di sviluppo di un Paese. Sarei dovuto essere in America Latina, in queste settimane. Purtroppo il coronavirus non me l’ha permesso…

E così è rimasto in Ticino, che – grazie a lei – è ormai diventato un centro di eccellenza mondiale nella ricerca e nella lotta contro il cancro. Com’è stato possibile costruire questo primato per un cantone fino a pochi decenni fa tutto sommato provinciale?

La vicinanza tra Ticino e Italia, le affinità culturali e linguistiche e, soprattutto, il fatto che il sistema italiano abbia negli anni ridotto gli investimenti nella ricerca scientifica sono tutti fattori che hanno permesso a un crescente numero di scienziati e ricercatori italiani di cercare sbocchi professionali in Ticino. Questa migrazione di cervelli ha contribuito a togliere il Ticino da uno stato di provincialismo. D’altra parte, proprio il provincialismo del Cantone è stato fondamentale per lo sviluppo dell’attuale realtà oncologica all’avanguardia. Ricordo che quando sono arrivato in qui, dopo i miei studi nella Svizzera tedesca, mi sono trovato di fronte al “nulla” ed è stato a partire da questo “nulla” che ho potuto pensare, progettare e costruire un’oncologia moderna, non conservatrice, diversa da quella professata nei grandi ospedali svizzeri. Un’oncologia basata sulla ricerca, con strutture specificatamente designate alla cura dei pazienti oncologici e capaci di permettere il rapporto malato-medico e la sperimentazione.

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami