Quale rappresentanza democratica e tutela delle minoranze? Intervista a Filippo Pizzolato

Professor Filippo Pizzolato, in caso di vittoria del Sì, si andrebbe a creare un problema di distacco degli eletti dagli elettori, visto che lo stesso numero di italiani eleggerebbe un numero molto inferiore di suoi rappresentanti in territori molto più ampi?

Questa domanda mi pare ponga la questione centrale, politicamente e anche costituzionalmente. E pone una questione che i numeri, isolatamente presi, non dicono. Quantitativamente, è facile dimostrare come aumenti la distanza fra rappresentato e rappresentante: per la Camera dei Deputati, ad esempio, non vi sarebbe più un deputato ogni 96.000 abitanti circa, bensì uno ogni 151.200. Ma questa distanza è effetto o causa della riforma? La riduzione del numero dei parlamentari nasce, come istanza, proprio dalla constatazione diffusa della disaffezione degli elettori rispetto agli eletti, e cioè dell’incrinarsi del rapporto di rappresentanza politica. Questo deterioramento ha la sua origine, più che nella sede immediatamente istituzionale – e cioè nel Parlamento in quanto tale – nei partiti che sono il soggetto cui è affidata la mediazione necessaria tra elettori ed eletti. 

I partiti, nelle periodiche rilevazioni di istituti demoscopici specializzati, sono le “istituzioni” nelle quali gli italiani ripongono stabilmente la minore fiducia (dai dati pubblicati da demos.it: 9% di fiducia nel 2009 e nel 2019, con punta del 5% nel 2017). Tale disaffezione, che si accompagna al crollo del numero degli iscritti ai partiti, trascina nell’abisso quella verso il Parlamento (al triste penultimo posto). 

In questa situazione, che nessuno può permettersi di ignorare, la rappresentatività del Parlamento appare a molti cittadini una finzione alla quale – a torto o a ragione – si fatica ad attribuire un significato sostanziale. Va poi considerato il potenziale rappresentativo – spesso e colpevolmente molto trascurato (perché chi difende la Costituzione non può ignorarne l’impianto autonomistico) – veicolato dalle istituzioni regionali e locali, nonché da quelle europee. 

La riduzione del numero dei parlamentari, in questo contesto, può avere significati ambivalenti: può essere certo segno di un rancore dal fiato corto; o parte di un discorso (un po’ misero, invero) di riduzione dei costi della politica; ma potrebbe anche avere il senso di avviare un percorso ulteriore di riforma che ridìa senso alla rappresentanza, magari – anche se non è affatto detto che succeda – innescando una successiva differenziazione del principio rappresentativo espresso dal Senato (con un Senato delle autonomie, ad esempio). Sicuramente, la riforma così com’è, senza cioè questa successiva differenziazione del Senato, risulterebbe molto debole, perché in un sistema di bicameralismo perfetto, con eguale rappresentatività dei due rami del Parlamento, si creerebbe uno squilibrio.

Un ulteriore aspetto riguarda l’impatto della riforma sulle minoranze politiche e il loro peso in Parlamento?

C’è un impatto generale e uno specifico. L’impatto generale deriva, per così dire, da una questione matematica. Riducendosi il numero dei seggi, per eleggere un deputato o un senatore sarà necessario – per ogni lista in competizione – raggiungere una percentuale maggiore di consensi, con la conseguenza che per i partiti piccoli sarà più difficile ottenere una rappresentanza. È pur vero che il partito piccolo non è necessariamente (e forse non lo è spesso) davvero espressivo di una minoranza culturalmente specifica, ma la “creatura” di una leadership in cerca di maggiore visibilità e di potere di contrattazione. 

La revisione non ignora invece il problema di quelle minoranze più specifiche, peraltro protette dall’art. 6 della Costituzione, che sono concentrate nelle Regioni a statuto speciale. Infatti il Senato, ai sensi dell’art. 57 modificato, resterebbe eletto su base regionale, e nessuna Regione – o Provincia autonoma – potrebbe avere un numero di senatori inferiore a 3, mentre per la Valle d’Aosta sarebbe confermato l’unico senatore. Le Province autonome di Trento e Bolzano quindi, possiamo dire, otterrebbero, in rapporto al numero complessivo dei senatori post-revisione, un incremento di rappresentatività, su cui peraltro non sono mancate obiezioni. 

In quali termini numerici “il taglio dei parlamentari” ridurrebbe la rappresentanza degli italiani all’estero?

La rappresentanza degli italiani all’estero si ridurrebbe: in Senato, da 6 a 4; alla Camera dei Deputati, da 12 a 8. La riduzione percentuale dei parlamentari eletti nella circoscrizione Estero è stata fatta in modo proporzionalmente corrispondente a quella complessiva, con la finalità dichiarata di non introdurre modifiche significative all’incidenza numerica della rappresentanza della circoscrizione Estero. L’assegnazione dei seggi alle ripartizioni della circoscrizione Estero per l’elezione della Camera e del Senato – sulla base della riduzione proposta e tenuto conto della previsione dell’art. 6, della L. 459/2001 – sarebbe la seguente: Europa, 3 deputati e 1 senatore; America meridionale, 2 deputati e 1 senatore; America settentrionale e centrale: 2 deputati e 1 senatore; Africa, Asia, Oceania e Antartide: 1 deputato e 1 senatore.

Matteo Salvini chiede al Governo, in caso di esito positivo del referendum, di andare subito al voto. Cosa significa andare «subito» al voto, dopo l’eventuale approvazione della riforma costituzionale? 

Si tratta di una posizione politica che risponde a una strategia partitica su cui evidentemente non ho titolo per entrare. Da un punto di vista complessivo, per la verità, mi pare che il momento elettorale − se a questo si anela − si avvicinerebbe di più in caso di bocciatura della revisione costituzionale approvata dal Parlamento. Nel caso prevalessero i No, infatti, è possibile (per me, probabile) che l’alleanza tra M5S (che ha investito molto su questa riforma) e PD (che l’ha approvata, ma manifesta turbolenze e dubbi) entri in fibrillazione e non regga l’urto. 

Nel caso invece in cui vincesse il Sì e il “taglio” del numero dei parlamentari fosse quindi approvato definitivamente, si aprirebbe una fase di adeguamento legislativo e regolamentare non scontato e sicuramente non breve. Si tratterebbe infatti, come è stato richiesto dal PD, anche se costituzionalmente non è necessario, di adeguare la legge elettorale alla nuova configurazione istituzionale del Parlamento, e comunque – questo, sì, è necessario − di ridisegnare i collegi e di modificare i regolamenti parlamentari. Insomma, per il tempo rimanente della legislatura si aprirebbe un lavoro di adattamento normativo che ragionevolmente allontanerebbe l’orizzonte delle elezioni. Per questo, mi pare poco credibile, sul piano istituzionale, il “mezzo” patto suggerito da Salvini, consistente nell’approvazione referendaria e nel successivo voto immediato. In ogni caso, la scelta su uno snodo delicato della Costituzione non dovrebbe, a mio avviso, essere condizionata da valutazioni così contingenti. 

Filippo Pizzolato è Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università degli Studi di Padova e di Dottrina dello Stato all’Università Cattolica di Milano

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