Quando arte e paesaggio coincidono

Il museo Lumen è uno spazio esperienziale ad alta quota che racconta la fotografia di montagna da diverse prospettive

Di recente, ho avuto l’occasione di visitare il Lumen, il Museum of Mountain Photography, prima della sua momentanea chiusura per l’emergenza pandemica da Coronavirus.

Il museo, inaugurato il 20 dicembre 2018, è ubicato a 2.275 metri di altitudine sulla cima di Plan de Corones e sul versante sud della Val Pusteria, in Alto Adige. Quest’audace costruzione, solitaria come un nido d’aquila e incastonata nel paesaggio dolomitico, con cui è in perenne dialogo, narra il grande tema della montagna tra storia e innovazione. Il progetto, firmato dall’architetto Gerhard Mahlknecht, nasce dal recupero dell’ex stazione a monte della prima funivia di Plan De Corones, la cui vocazione turistica iniziò nel 1871 con la messa in funzione della linea ferroviaria Villach-Lienz-Fortezza. Oltre agli spazi espositivi, il Lumen ospita su una superficie di 1800 mq con una sala eventi e un ristorante stellato in un unico “concept”, che combina intrattenimento ad arte fotografica.

La visita all’interno di questo bianco contenitore, tutt’uno con la neve d’inverno, inizia al terzo piano, dove ci si imbatte nel “Wall of Fame”: fotografi pionieri che hanno inaugurato un nuovo modo di documentare la montagna, non più sacra e intoccabile, né a beneficio della ricerca scientifica che cercava, sulla scia del padre fondatore della fotogeologia Aimè Civiale, di spiegare l’origine dei massicci montuosi. Il dagherrotipo di Gustave Dardel, infatti, la più antica fotografia di montagna conosciuta ancora conservata, scattata sulle Alpi bernesi, e i dagherrotipi del Faulhorn della svizzera Franziska Mollinger, considerati le prime panoramiche alpine, sono i felici tentativi di adottare un nuovo punto di vista: dall’alto verso il basso.

Si deve però ai fratelli Bisson la nascita della fotografia di montagna di carattere avventuroso con la documentazione della scalata del Monte Bianco nel 1861. Altri furono poi i fotografi alpinisti che a loro s’ispirarono: Joseph Tairraz, che si definì una “guida fotografica di montagna”, Jules Beck, che riuscì per primo a documentare le montagne della Svizzera oltre i 4.000 metri, riducendo il carico della sua attrezzatura fotografica (in quei tempi molto ingombrante e pesante fino a 250 Kg) e, infine, Vittorio Sella, imprenditore e alpinista, che sperimentò la fotografia attraverso il processo con lastre a secco. Nell’ottobre del 1898, il capitano svizzero Eduard Spelterini, con la sua mongolfiera Wega, sorvolò le Alpi dal Canton Vallese a Becancon in Francia, regalando al mondo le prime immagini delle Alpi dall’alto.

Sempre sullo stesso piano del museo, si dipana un percorso storico dalla nascita della fotografia, quando, nel 1839, Dominique Francois Arago annunciò ai membri dell’Accademia Francese delle Scienze di Parigi la dagherrotipia; un viaggio multisensoriale nel tempo, minuziosamente documentato accompagna il visitatore, illustrando lo sviluppo ottico- meccanico degli apparecchi e l’evoluzione chimica attraverso i mezzi di fissaggio e di riproduzione. Si parte con la prima camera oscura di Giovanni Keplero nel 1620 e con le camere a lastre ottocentesche di legno, con il soffietto, che permetteva lo scorrimento dell’obiettivo, fino alle fotografie stereoscopiche, con le due camere collocate in posizioni differenti per rendere la tridimensionalità. Poi, passando per la prima fotocamera reflex, si arriva, con l’introduzione dell’elettronica, alle fotocamere automatiche e a quelle attuali digitali, che si evolvono continuamente con il miglioramento dei sensori CCD e la micro-automatizzazione.

Scendendo al piano inferiore dalle scale o con l’ascensore panoramico, la montagna viene raccontata nelle diverse valenze che l’uomo le ha attribuito nel tempo: sede di demoni e dei, entità sublime, che accompagna la nascita di una nuova letteratura di viaggio, simbolo identitario delle nazioni e del potere per la sua maestosità, sacra e intangibile ancora per alcune culture come il Kailash in Tibet, che può essere circumnavigato ma non scalato; sinonimo di libertà, tempo libero e avventura. Tra le due guerre, il cinema, attraverso scenografiche riprese, ne accentua la popolarità come meta turistica, per esempio nei film del regista Arnold Fanck. La fotografia di montagna si aggancia anche al marketing negli anni Venti e Trenta, quando gli spot pubblicitari e gli opuscoli iniziano ad attingere all’arte e a ritrarre le vivaci ed eleganti composizioni dei fotografi svizzeri Emanuel Gyger e Arnold Klopfenstein.

Nell’Adrenalin Room gli scatti, sotto forma di installazioni multimediali, documentano gli sport estremi per omaggiare chi sta dietro l’obiettivo; si tratta del “Red Bull Illume”, il più grande concorso di fotografia sportiva d’avventura. Il primo piano ospita la mostra permanente “Messner meets Messner by Durst”, lo Studio di New York, dove l’alpinista ed esploratore ha testato le possibili applicazioni di una futura fotografia simultanea a 360 gradi, da poter riconvertire direttamente in stampe 3D o in ologrammi.

Ogni anno il Lumen, attraverso il progetto “Artist in residence”, accoglie fotografi che sappiano rendere l’unicità delle Dolomiti con una loro originale e personale visione; uno di questi, Kurt Moser, utilizza la fotografia di grande formato e speciali tecniche storiche e, nello spazio espositivo a lui dedicato, presenta la sua suggestiva carrellata di ritratti: gli agricoltori di montagna dai volti scavati dalle rughe e le mani nodose consumate dal lavoro. Il museo ospita anche mostre temporanee come il viaggio fotografico “Continents, Mezzo secolo di fotografia tra le montagne dell’Africa e dell’Asia” del fotografo praghese Jaroslav Poncar, famoso per le sue panoramiche dell’Himalaja, del Karakorum, dello Yemen, del Tibet e del Butan e che immortalò, nel settembre del 1976, l’adunanza di una folla oceanica in occasione dell’arrivo del Dalai Lama in Ladakh.

La mostra “The Legendary Dolomites”, del fotografo svizzero Ulrich Ackermann, reinterpreta invece in maniera innovativa le Dolomiti attraverso la prospettiva della verticalità e attinge al patrimonio favolistico creando un parallelismo curioso e affascinante. Così il gruppo montuoso del Catinaccio (Rosengarten in tedesco), alla luce del crepuscolo, risplende come il roseto del leggendario re Laurino, che tradì lo stesso rendendolo visibile ai nemici tanto che questi lo maledisse e con un incantesimo lo mutò in roccia. Il visitatore rivive, attraverso gli scatti di Ackermann, leggende di creature mostruose come il drago del Sasso di Santa Croce che, si narra, terrorizzasse gli abitanti della Val Badia o di divinità femminili come le Salighe dello Sciliar, di principesse innamorate perdutamente di pastori che hanno dato il loro nome ai monti come il monte Cristallo chiamato anche “Croda De Bertoldo” e di giganti, come quello che fu punito dai suoi simili per aver rubato e, per questo, gettato nelle profondità della terra; solo la sua mano, ancora visibile oggi, si protende maestosa verso l’alto: le cinque dita rocciose di Sassolungo.

 

 

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