Quando incontrai Maurizio Gucci

Mi diceva sul finire degli anni 60 un amico: “Tu vedessi, dalle finestre del mio studio a New York, nella Quinta Strada, assisto ogni giorno a qualcosa di incredibile: dal primo mattino fino a sera, davanti ai negozi Gucci la gente si deve mettere in coda. Una persona dietro l’altra, fanno a pugni per entrare. Indubbiamente rappresenta uno dei grossi fenomeni dell’America, uno dei più enormi successi”.

In questo periodo tanto si è parlato e scritto del nuovo film di Ridley Scott “House of Gucci”, con protagonista Lady Gaga e un cast formidabile composto da Al Pacino, Jared Leto, Adam Driver e Jeremy Irons. La pellicola ha portato ancora di più in primo piano un nome già celeberrimo: Casa Gucci.

Oggi Gucci fa parte del Gruppo Kering, il suo AD è Marco Bizzarri, il direttore creativo Alessandro Michele, ed è sempre attivissima la sede di Firenze. Ventimila sono i dipendenti e vicino Firenze si crea, si produce, si presenta. Nel lontano 1983 conobbi e intervistai Maurizio Gucci, che da poco era presidente della casa di moda.

Una presidenza che durò fino al 1993.

Firenze, New York, Roma, Milano, Montecarlo, Parigi, Londra, Palm Beach, Beverly Hills, Chicago. Via Tornabuoni, Fifth Avenue, via Condotti, Via Montenapoleone, Corso Roma, rue du Faubourg-Saint-Honoré, Mayfair, The Royal Poinciana Plaza, North Rodeo Drive, North Michigan Avenue. Potrebbe sembrare un interessante itinerario turistico o, quantomeno, un elenco delle più importanti ed eleganti strade del mondo, ma, in questo caso si tratta delle città e delle strade dove si trovavano le sedi Gucci.

Gucci, ovvero gli articoli di pelletteria (“leather goods”) che dalla natia Firenze sono “emigrati” in tutto il mondo, diventando quanto di più famoso e ricercato poteva esservi. Un prodotto che già all’inizio del 900 -grazie a Guccio Gucci-rappresentava l’arte della lavorazione del cuoio per gli usi nella selleria, tanto da richiamare nel laboratorio fiorentino non soltanto la migliore società toscana ma -in breve tempo- una raffinata clientela internazionale attratta poi -oltre che da selle e finiture- da calzature e valigie. Poi toccò ai suoi figli (Aldo, Vasco e Rodolfo), e in seguito ai nipoti (Giorgio, Roberto e Maurizio) allargare l’azienda e la gamma di prodotti.

Gucci: una grande “stirpe” della moda, una “dinastia” che nelle nostre menti “d’epoca” si ricollegava a quella dei Ford, dei Pirelli, Agnelli, Hearst, Barrymore. Era molto difficile -se non impossibile- avvicinare e intervistare uno di loro. All’inizio degli anni 70 li cercai più volte: però, quando non erano a Firenze, Roma o Milano, erano a Parigi, Londra, New York. E quando mi trovavo negli Stati Uniti, loro erano in Europa. Tutti impegnatissimi, sempre, fra le fabbriche ed i negozi, l’Italia e l’estero.

Quindi… ecco le sfilate a Pitti (che riuscii a far riprendere completamente per la mia rubrica TV), le presentazioni al Circolo del Giardino di Milano, e ancora le sfilate a Milano, alla Fortezza da Basso a Firenze. E, sempre a Milano, il 28 aprile dell’83, l’inaugurazione del nuovo negozio in via Montenapoleone: stupendo, vi potevi entrare per scegliere soltanto un portafoglio o una cintura, e -così come nell’eccezionale “Gallery” di New York- sentirti “un divo”, un protagonista, in un ambiente che ti faceva ricordare un po’ le hall dei grandi alberghi internazionali, un po’ la Croisette, Palm Beach e anche “Ziegfeld Follies” (serie di spettacoli teatrali prodotti a Broadway dal 1907 al 1931), i film di successo -fra sogno e realtà- degli anni Trenta. E qui dell’azienda Gucci parlai con Maurizio: giovane, gentilissimo, straordinariamente simpatico, brillante. Come fu suo padre, Rodolfo.

Non tutti ricordano che, negli anni Quaranta, Rodolfo Gucci fu uno degli attori di maggior successo e più amati col nome di Maurizio D’Ancora. Essendo sempre molto legato al mondo del cinema, quando lasciò la carriera cinematografica per tornare nell’azienda di famiglia e poi ebbe un figlio, Rodolfo volle chiamarlo Maurizio, ricordando così con lui il suo passato. E a Maurizio dedicò un film bellissimo, dolcissimo, struggente: “Il cinema nella mia vita”.

Ma ecco di seguito la mia intervista con Maurizio Gucci: 


Riesco, finalmente, a parlare dell’impero Gucci

“No, no, per carità, non parliamo di impero” – rispose, sorridendo, e con estrema modestia, Maurizio- “prima di arrivare all’impero ce ne sarebbe da fare! Tutt’al più, parliamo di un piccolo reame. Ma questo lasciamolo dire agli altri. Abbiamo programmi grandissimi, l’impegno lo è altrettanto, e gravoso: ma tutto quello che facciamo ci riempie di gioia. Però di “impero” no, non ne parliamo sicuramente”.

Allora possiamo parlare di “Casa Gucci”?

“Questo sì, certamente!”.

Dunque: col gusto fiorentino, raffinatissimo, siete riusciti a imporvi sul mercato statunitense, dove i gusti sono diversi. Da cosa è dipeso? Dal conoscere inclinazioni e psicologia degli americani? Dalla differenziazione delle linee? Cosa, in definitiva, ha costituito la molla del successo oltreoceano?

Il successo credo sia dipeso soprattutto dall’aver trasmesso questo messaggio di cultura, che tutto il mondo auspica di ricevere dall’Italia. Ovviamente il prodotto deve seguire le esigenze di un certo tipo di vita, che varia di mercato in mercato, ma decisamente -ripeto- quello che crea il suo successo è anche l’aver saputo trasmettere quanto gli altri Paesi cercano nella cultura italiana. Siamo stati dei grandi ambasciatori in questo”.

Secondo lei, il rapporto moda-cultura è essenziale?

“Assolutamente sì: perché la moda non è altro che il vivere ogni giorno e vivere ogni momento della giornata. La vita è cultura: quindi la cosa è molto collegata”.

Una cultura che per voi risale ancora al cuoio…

“Sì, certamente: ai tempi del nonno”.

Con un’evoluzione nel tempo che vi ha portati anche ad “aprirvi” all’abbigliamento.

Noi operiamo in questo settore già da vari anni; ora ci stiamo maggiormente proprio perché l’ambiente, il mondo, sono cambiati. Prima l’accessorio era di vitale importanza, però non seguiva particolarmente la moda, non variava con una rapidità come quella odierna. Oggi l’abbigliamento rappresenta il settore leader di una certa immagine: perciò l’accessorio – pur conservando sempre la sua vitale importanza- viene conseguentemente. Ecco quindi che, per aggiornarne l’immagine, rispecchiando quella che è la politica costante di Gucci, non si deve restare vincolati a certi schemi, ma interpretare la vita di ogni giorno in continuo mutamento: accettando tutto ciò che avviene nel mondo si deve per forza riconoscere quello che è il settore più importante. Da tutto ciò sorgono le motivazioni di questo grosso impegno”.

Che vede in primo piano anche le sfilate.

“Devo premettere che Gucci è la garanzia di un marchio, che a sua volta garantisce il prodotto, qualunque esso sia, in tutti i nostri settori operativi.  Quindi -pur avendo molti stilisti all’interno dell’azienda- la nostra non è una posizione concorrenziale nei confronti di altri grandissimi nomi: non ci vogliamo identificare con il “design”. Ecco -fra l’altro- perché sfiliamo sempre al di fuori di certe manifestazioni, di certi calendari obbligatori. Come lei ha visto, ad esempio, anticipiamo la moda donna di sei mesi: tutti i nostri punti vendita -gestiti direttamente da noi, o da esclusivisti- possono avere soltanto merce Gucci. Farli venire da tutto il mondo 5/6 volte l’anno, per noi sarebbe problematico. Perciò, anche per esigenze produttive delle altre categorie merceologiche, siamo costretti ad anticipare le sfilate d’abbigliamento femminile di primavera-estate, mentre per l’autunno-inverno riusciamo a rispettare i programmi, i tempi un po’ di tutti”.

E quali sono i rapporti con gli stilisti? Siete voi che date l’input per i vari settori merceologici, per le varie collezioni?

“Certamente. C’è una grossa équipe, c’è un grosso spirito di collaborazione. L’immagine trainante poi è il nome, a prescindere dalle idee di tutti c’è sempre questa filosofia, che è la decisionale”.

Il vostro negozio di Milano rispecchia una concezione diversa da ogni altro, pur rifacendosi, in chiave modernissima, a schemi del passato.

Noi investiamo moltissimo sui punti vendita, come ha potuto vedere: perché non si tratta soltanto di vendere, ma di far apprezzare un prodotto. Il risultato finale, ovviamente, è commerciale: ma il modo di raggiungerlo è diverso. Puntiamo moltissimo sul piacere che può provate la clientela trovandosi in un certo ambiente, al di là dell’entrare in un negozio per comprare la camicetta, o la gonna, senza che quanto vi è attorno corrisponda allo spirito del prodotto stesso. Per questo, anche tutti i materiali del negozio di Milano sono “antichi” (pietre e stucchi trattati “alla pompeiana”) di grande cultura del passato neoclassico: ma, allo stesso tempo, hanno questa immagine aggiornata unita al concetto di “casa” dove la gente si riunisce e può apprezzare la gioia di trovare un prodotto. Tutti i nostri negozi seguiranno poi questa immagine che, come le dicevo, deve essere costantemente aggiornata, pur nel rispetto della tradizione che, per noi, ha basi fortissime. E tutto quello che è stato fatto ci permette di adeguarci ai tempi per essere riconosciuti sul mercato come qualcosa di ‘vivo’. Però c’è da precisare una cosa: alcuni giornali hanno scritto di ‘rivoluzione in casa Gucci’, di ‘ristrutturazione completa’. Esiste una ristrutturazione ed esiste un aggiornamento dell’immagine, ma questo non ha niente a che vedere con una negazione del passato, né nell’ immagine, né nella struttura. Quanto avviene da noi è normale per qualsiasi azienda, per qualsiasi marchio. Abbiamo cercato di non fossilizzarci su un certo stampo, ma Gucci è sempre Gucci. Un’immagine che si evolve nei tempi. Un’opera d’arte del ‘600 non significa negazione del ‘500, però è innegabile che nel ‘600 un aggiornamento si è verificato. Proprio perché il nome, garanzia del prodotto che offriamo, con tutte le sue strutture deve essere all’altezza dell’epoca in cui si vive. È vero che un 40% della nostra produzione è sempre la stessa: sì, molti -soprattutto stranieri- cercano il prodotto Gucci, che possono ancora trovare; però, il 60% viene aggiornato costantemente per rispetto di quel nome che, altrimenti, perderebbe di elasticità”.

Con lei e i suoi cugini si è arrivati alla terza generazione Gucci. L’avete ritenuto naturale, scontato, accettato di buon grado, facendo parte di “Casa Gucci”, oppure per autentica passione? Da come lei parla, dall’entusiasmo che traspare dalle sue parole e dalla sua espressione, dall’orgoglio anche più che logico, e giustificato, si propenderebbe per l’autentica passione.

“Io ho studiato, mi sono laureato, ma già mentre ero all’università lavoravo in azienda: vi sono da 15 anni. Se non fosse passione, le garantisco che avrei già da tempo lasciato tutto. Sì, lavoro con grande passione, lo ammetto, e con grande gioia. Ma oggi è già presente in azienda la quarta generazione, pronta a ad operare nei vari settori: molti sono felici, e da parte nostra non c’è certamente violenza nei loro confronti. Chi opera deve essere al massimo della professionalità, con lo spirito di apprezzare quanto fa. Ma anche i giovanissimi sentono molto questo lavoro. Il futuro darà i suoi risultati”. 

È chiaro: questo nome importante che avete sulle spalle non vi pesa; anzi è -giustamente motivo di orgoglio. Giusto?

No, non mi pesa, assolutamente, e non pesa a Roberto: siamo convinti di ciò che facciamo. Naturalmente la responsabilità è grande; perché se creare è difficile, molte volte lo è ancor più mantenere e sviluppare, portando avanti con altrettanto successo ciò che è già nato”.

Il 27 marzo del 1995 ero a Milano, dovevo recarmi in Corso Vittorio Emanuele, passando da Via dei Giardini. La strada era bloccata. “È avvenuta una tragedia”, mi dissero. Anche questo è risaputo: Maurizio Gucci era stato ucciso. Ovviamente fui sconvolta, come tutto il “mondo della moda”.

Molti anni dopo intervistai Patrizia Gucci, figlia di Paolo Gucci: giustamente, teneva a precisare che lei era (ed è) la vera Patrizia Gucci, da non confondere con Patrizia Reggiani, moglie di Maurizio e mandante del suo omicidio. Ma questa è un’altra storia.

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