Quando la demagogia si fa religione

di Amedeo Gasparini

Con il fenomeno politico del populismo – l’uso sfrenato della demagogia, la galvanizzazione e l’elevazione del popolo, la divisione manichea tra élite e gente comune, la mano pesante dello Stato nella vita delle persone – la divinizzazione del leader unico del partito o movimento sciovinista assume connotazioni quasi religiose. Che sia di destra o di sinistra, il leader populista è riconosciuto, rappresentato e presentato al “popolo” come un semi-Dio. Talvolta è la folla stessa che fa del leader quasi un essere supremo da osannare e portare in trionfo, ma il più delle volte, è proprio il leader che si autopromuove agli occhi della folla e dunque s’incarna nella divinità che la massa in visibilio acclama e desidera. In particolare, l’auto-divinizzazione e la divinizzazione indotta sono tipiche dei leader demagogico-populisti, che per promuovere i loro programmi offrono al pubblico anche la loro fisicità, oltre che un pensiero semplificato e spesso corroborato da informazioni palesemente fasulle.

Jan-Werner Müller (Che cos’è il populismo?) ha scritto che «i populisti non si oppongono al principio della rappresentanza politica; insistono soltanto di essere gli unici rappresentanti legittimi.» Il che è molto pericoloso per un sistema democratico, dove non esistono “unici” rappresentanti del popolo, ma diverse formazioni (altro discorso è il vuoto politico dovuto alla mancanza di alternativa). Come tutti i “dii” (non gli dei) delle religioni monoteiste, anche i leader populisti insistono ad essere “uno” ed unico. 

I populisti s’intestano dunque una legittimità che non appartiene a nessuno: chi può dirsi difensore del “popolo” o del “popolo vero”? 

L’“anonimizzazione” della massa è tipica del populista, che dall’alto del suo palco fa un lungo e violento sermone contro gli infedeli. Cosa che gli conferisce lo status di semi-dio, di divo, di icona agli occhi del popolo.

Come succede in tutte le religioni, ai leader populisti piace il modello top down (che assicura controllo) e non quello bottom up (che serve alla costruzione), nonostante il leader stesso di richiami alle radici dal basso. Religiosamente e divinissimamente, il capo del partito populista di turno domina la folla: la incanta. La doma. Benjamin Moffitt (The Global Rise of Populism) ha scritto che «se il leader rappresenta o incarna la volontà del “popolo”, e se il “popolo” ha sempre ragione, allora il leader ha sempre ragione». Nell’ottica del Capo populista, è egli stesso ad essere infallibile; ecco dunque la statura divina del demagogo, “unico” rappresentante “vero” del “popolo vero”. Egli ha presa sulla società: dal basso all’alto c’è il flusso di consenso del popolo che guarda al leader come salvatore supremo; dall’alto al basso c’è il flusso di comando del tiranno che manovra i fili della burocrazia statale per controllare i sudditi.

Raymond Aron ha preso come esempio il Comunismo occidentale come esempio di ideologia (populista, aggiungo) che si trasforma in vera e propria fede. Ne L’opium des intellectuels il filosofo francese riconosce come il trasformare un’ideologia (politica) in fede sia pericoloso per le società democratiche: nella sua ottica, la fede ideologica è caratterizzata dall’assoluta intransigenza. E quasi tutte le religioni applicate alla società sono intransigenti: non tollerano la dissidenza, l’autonomia di pensiero, il diritto a ribellarsi; vogliono uniformare laddove è possibile e quando non è possibile, scomunicano. 

Anche l’ideologia populista si fa fede e dunque è indiscutibile: piega l’uomo alle sue esigenze ed è intransigente nei confronti del prossimo.

Quando il populista si eleva a divinità e trasla il suo discorso demagogico a status di verità, denigrando gli avversari, delegittimando gli altri concorrenti politici – se ce ne sono ancora – e appellandosi al “popolo vero”. Egli strumentalizza ogni tipo di tematica e discussione, proprio come fanno alcuni estremisti religiosi: «l’ideologismo […] è responsabile anche dell’aumentata aggressività della lotta politica», ha scritto Panfilo Gentile (Democrazie mafiose). «Come la religione, l’ideologismo fa credere che siano sempre in ballo la verità e la giustizia.» E sono questi ultimi concetti che il leader populista vuole trasmettere al popolo: come un capo religioso, parla di una sua idea di verità e giustizia e la trasmette, come un pontefice, alla comunità dei fedeli.

Già alla fine del diciannovesimo secolo, Gustave Le Bon (Psicologia delle folle) aveva ben spiegato i meccanismi che i capi politici demagogici – allora non si usava il termine “populista” – usano per conquistare il favore popolare, al contempo elevandosi come autorità supreme sulle folle cieche. «Non si è religiosi soltanto quando si adora una divinità, ma anche quando si mettono gli ardori del fanatismo, al servizio di una causa o di un uomo diventato lo scopo e la guida dei nostri sentimenti e delle nostre azioni.» Il sociologo francese metteva in guardia rispetto alla pericolosità di un affidamento cieco al leader supremo, all’unico accarezzatore di desideri popolari: il suo indottrinamento demagogico è proto-religioso. «La folla: una forza cieca che continuamente divora se stessa», ha scritto Émile Zola; la folla, «sempre pronta a sollevarsi contro un’autorità debole, innanzi a un potere forte, si piega servilmente», aggiunge Le Bon.

Qual è il risultato di un populismo mischiato al divismo? Come sotto le teocrazie, a rimetterci, nel lungo termine, non sono solo le istituzioni democratiche – svuotate di ogni significato perché dileggiate, represse, degradate ed infine smantellate dal grande ayatollah populista –, ma il cosiddetto popolo. Il rapporto (nonché l’attitudine) che il leader populista ha nei confronti della (sua) gente ricorda quello dei tiranni teocratici: una forzata sottomissione al sacerdote-capibastone, basata sull’idolatria. D’altra parte, l’elemento divistico assicura successo e popolarità: a tutti gli effetti, il capo populista è, si promuove a ed è percepito come una sorta di rock-star o giustiziere.

www.amedeogasparini.com

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