Quel lavoro che non nobilita l’uomo

Sicurezza e lavoro. Che cosa succede in Italia

di Giovanna Guzzetti

Triste dirlo, ma alle morti sul lavoro abbiamo fatto l’abitudine. Come con i femminicidi. No, non stiamo facendo esercizi di cinismo ma l’assimilazione tra i due fenomeni nasce soprattutto dalle modalità con cui i media li trattano. In genere l’incipit del servizio radiofonico o televisivo è “nuovo incidente mortale sul lavoro”. Le varianti “ennesimo incidente mortale sul lavoro” oppure “ancora un incidente mortale sul lavoro”. Un esordio di questo tipo presuppone che si stia tenendo, ragionieristicamente, il conto.

E così è, al di là delle statistiche che servono a chi della sicurezza sul lavoro dovrebbe istituzionalmente occuparsi, perché il fenomeno è ridondante, fa audience. E qualcuno aggiunge “è in crescita”. Ma è proprio così? Morire sul posto di lavoro non dovrebbe esistere nel vocabolario della nostra esistenza. Una sola persona che perda la vita mentre si guadagna da vivere per sé e la sua famiglia, svolge la professione per cui si è preparato, contribuisce alla crescita del suo Paese (mai dimenticarlo!) è un ossimoro, qualcosa che fa troppo male, stride con i principi di rispetto e tutela dell’individuo che, al di là di leggi e regolamenti, dovrebbero essere alla base della convivenza e della democrazia. Lo ha ricordato di recente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in visita all’isola di Ventotene, dove furono confinati l’ex Capo dello Stato, Sandro Pertini, ed i futuri padri dell’Europa, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, ha citato “il valore della predominanza, dell’importanza preminente del valore della persona, di ogni singola persona”. Le morti bianche, degli umili (che spesso sono anche gli ultimi…) sono silenziose, non fanno rumore né scalpore e godono, anche nell’epoca del web, di un rapido oblio. Quindi, se analizziamo il tema solo attraverso questa griglia di osservazione, la reazione non può che essere di sdegno. Un sentimento forte che deve permanere. Ma la realtà, soprattutto in tempi di fact checking, va letta per quella che è davvero. I titoli che gridano alle impennate, ai boom di incidenti e morti sul lavoro, sono urlati ma non del tutto corretti.

A raccontarci che cosa è successo sono i dati dello stesso INAIL, (Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) come riportati sul loro sito (link a https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/sala-stampa/infografiche/infografiche-infortuni-mp-2020.html). È interessante notare come nel periodo considerato, gli anni dal 2016 al 2020, si assista ad una preoccupante divaricazione dei trend. Al calo del 12,8% del totale degli infortuni corrisponde un incremento del 13,7 per cento degli incidenti mortali nello stesso quinquennio con un boom nel 2020 sull’anno precedente (più 13,3 %, da 705 a 799). Un dato davvero inquietante in un anno di attività produttiva fortemente limitata dal Covid, visto che non viene evidenziato alcun nesso causale tra virus e decessi. E, per completezza dell’informazione, sempre tra 2016 e 2020 si è assistito ad un crollo delle malattie professionale, diminuite del 39,5%. Tutto questo ci fa dire che, dati alla mano, c’è attenzione alla salute sul lavoro e che, evidentemente, le misure di prevenzione e sicurezza non sono disattese, anzi. Una certezza che però i casi di cronaca ed il totalizzatore in movimento ogni giorno (questa è stata davvero una estate da dimenticare sotto questo profilo…) non fanno che vanificare nella pubblica opinione. Quindi, in tema di salute, sicurezza e incidenti sul lavoro, ci si deve muovere con attenzione reale e circospezione, senza farsi prendere da quella eccessiva emotività che non conduce alla soluzione del problema.

Bene fanno i rappresentanti dei lavoratori a denunciare questi accadimenti: di recente il segretario generale della Cgil, Landini, ha chiesto al Governo di intervenire in prima persona nella lotta alle cosiddette morti bianche.  “C’è bisogno di una doppia operazione: la prima considerare la salute e la sicurezza non un costo, ma un investimento e un elemento di qualità; la seconda, bisogna finalmente fare investimenti per aumentare i controlli, per aumentare gli ispettori e, allo stesso tempo, c’è bisogno di introdurre anche una serie di strumenti come, ad esempio, la patente a punti, che in un qualche modo fa continuare a lavorare quelle imprese che rispettano le norme e non quelle che continuano a non considerare la salute e la sicurezza beni primari”, ha precisato Landini.

Concetti analoghi li ha espressi Bruno Giordano, giudice di Cassazione (e docente di diritto della sicurezza del Lavoro), che nel luglio 2021 ha assunto la guida dell’agenzia creata dal Jobs Act per accorpare le funzioni di vigilanza di ministero del Lavoro, Inps e Inail. Giordano bolla come positiva l’idea di Landini sulla patente a punti: “L’idea era ottima, ma in 14 anni non è stata mai realizzata per difficoltà tecniche relative all’accesso alle banche dati, al sistema di conteggio, alla registrazione delle imprese. È una materia che necessita un confronto tra le parti sociali e speriamo che ora i tempi siano maturi”. Non ritiene però Giordano che sanzioni più severe possano essere risolutive mentre, giudicando (correttamente) il lavoro nero, la vera piaga, “lavoro insicuro”, è dell’avviso che andrebbe ridotta la quota di lavoratori in nero oltre la quale scatta la sospensiva per l’attività dell’impresa.

Sul fronte della specifica attività giudiziaria da tempo si parla della creazione di una Procura Nazionale in materia di sicurezza e infortuni sul lavoro: l’apposita proposta di legge, del dem Boccuzzi, del dicembre 2012 non fa però passi avanti.  Eppure, servirebbe, commenta lo stesso Giordano, per imprimere “maggiore velocità dei processi”. Anche se è innegabile che la stessa celebrazione di un processo, con le eventuali condanne dei responsabili (il pensiero corre alla strage alla Thyssen di Torino), è già di per sé una sconfitta, un vulnus alla dignità umana. Perché il lavoro deve davvero nobilitare l’uomo. Non ucciderlo.

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