Restino soltanto i sassi

UMANA RAZZA

Dicembre 2015. Isola di Leros.

Campo di accoglienza di Leros.

Dopo cinque giorni allo stadio Tae Kwon Do, pensavo di essere in qualche modo preparata. Avevo visto l’incoerente distribuzione di beni di consumo. Avevo pianto per avere ricevuto l’ordine di ritardare la distribuzione della carta igienica a coloro che ne facessero richiesta. Avevo visto gli affamati trascorrere le proprie giornate nella coda infinita per la distribuzione del cibo. E gli arrabbiati, gli sconfitti, i persi. I resistenti, gli aggraziati. La tenerezza inattesa. Ero stata consolata da un rifugiato che mi aveva scoperta piangere in un angolo del cortile il secondo giorno. Avevo visto l’interno delle tende; avevo camminato tra quelle improvvisate, fatte di coperte grigie UNHCR. Avevo disobbedito a ordini diretti e distribuito di nascosto latte per bambini, salviettine umidificate, scarpe.

Ma nulla mi aveva preparato a questo. Il pianto dei bambini riempie l’aria. Le linee dei panni stesi, fitte di minuscoli calzini e vestiti, attraversano il campo, collegano gli alberi. Un giovane sbarca sulla terraferma trasportato dalle braccia di un amico; un catetere visibile, mezzo pieno, sotto di lui. E gli anziani, seduti in silenzio.

E così chiedo al coordinatore del gruppo dei volontari il lavoro di profilo più basso disponibile. Nessun contatto con le persone, non ancora. Per favore.

Una grande tenda MSF viene svuotata e ripulita. Sono attesi 800 nuovi arrivi questa sera; centinaia sono partiti da poco per Atene. Mi viene assegnato un grande sacco nero, di plastica spessa, alto quasi quanto me, e guanti di gomma. Gli uomini solleveranno i pallet di legno, che fungevano da letti sopra il terreno di sassi, e io raccoglierò la spazzatura.

Biscotti sfusi.

Un palloncino arancione.

Una Barbie nuda.

Scarpe per bambini, vestiti per bambini.

Un cavallo di plastica rosa con una spirale di stelle nere sul lato destro.

Due siringhe usate.

Tre saponette.

Avanzi di cibo marcio. Muffa.

Un camion dei pompieri rosso.

Una biglia verde mare con le venature gialle.

Una coperta celeste di lana, per culla, con il bordo in raso. La appendo al passante sinistro dei miei jeans.

Bambole nude di varie dimensioni.

Parti del corpo di bambole.

Matite colorate. Pennarelli.

Acqua in bottiglia.

Pane vecchio.

Pannolini usati.

Pannolini sfusi.

Una felpa di marca norvegese.

Un cucchiaio di metallo con il manico in legno.

Un portacenere ricavato da una lattina tagliata.

Il piccolo disegno di un palloncino che vola, a forma di cuore.

Numeri scritti a mano.

Calligrafia di bambino scritta in inchiostro blu.

Un opuscolo informativo di Medici Senza Frontiere.

Un poncho di plastica.

Un pupazzo di cane lavorato a maglia, che adotto e chiamo Un. (Disobbedendo agli ordini diretti di buttare tutto, in buono stato o rotto.)

Il cadavere secco e piatto di un topo, intrappolato sotto il lettino di un bimbo.

Un topo nero, vivo, che mi fissa.

Senza titolo, inchiostro su carta, di Adnan Aljasem. Laureato in ingegneria petrolchimica, Adnan ha lasciato la Siria per non combattere nell’esercito di Assad. La sua richiesta di asilo, inizialmente respinta dalla Svizzera, è stata accolta in sede di appello.
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