Sapremo ancora vedere le disuguaglianze quando la pandemia sarà finita?

Nel caso dell’epidemia di COVID-19 la legge non è uguale per tutti.  Anche se il virus non conosce confini geografici né barriere sociali, colpendo i benestanti come i meno abbienti, la mappa dei contagi e dei decessi, del trauma della malattia e del post-trauma è disomogenea: a essere maggiormente colpiti sono i poveri, i precari, le donne e gli immigrati. L’allarme arriva da numerose parti sociali, politici e filosofi, che chiedono, subito, adeguate misure di protezione sociale, per arginare il flusso di quanti sono trascinati in condizioni di povertà e di deprivazione.

Lo ricorda, al Corriere degli Italiani, Massimo Cacciari, filosofo e politico italiano: “La crisi accentua e accentuerà contraddizioni e disuguaglianze di ogni tipo. A partire dal modo assolutamente diverso in cui è costretto a vivere la quarantena chi sta in una villa con giardino e chi in una monocamera con la famiglia! Le tensioni sociali esploderanno con la fine degli ammortizzatori bene o male messi in piedi. Nulla è più stupido di credere che le epidemie colpiscano tutti allo stesso modo! Certo, può morire il ricco come il povero, il re come il barbone. Ma è la media che conta! E la media è che, nella stragrande maggioranza dei casi, in giro per il mondo è curato meglio chi più ha. Soprattutto le conseguenze psichiche della crisi sono diversissime. Non ci si ammala solo di virus vari, ma di crollo del reddito, precarietà, disoccupazione.”

Come nel caso della famiglia di Chiara Bosi, la cui storia è stata raccontata in un articolo pubblicato su The Economist lo scorso 6 giugno. Mamma di quattro figli e lavoratrice con contratto temporaneo in ristoranti nel livornese, la Signora Bosi è stata tra le prime a perdere il lavoro, nel periodo delle restrizioni. Anche il marito, operaio nel porto di Livorno, si è ritrovato senza occupazione. Come loro, sono oltre 500 le famiglie che nella stessa zona hanno beneficiato di aiuti alimentari distribuiti da un’associazione locale, Amici della Zizzi.

Il problema non è solo italiano. È un fenomeno che trascende i confini (e d’altra parte proprio la pandemia ci ricorda dell’interdipendenza del mondo contemporaneo). Anche in Svizzera, ad esempio, il tasso di disoccupazione registrato tra gli iscritti agli uffici regionali di collocamento a marzo è salito a 2,9%. Il dato, che forse fa sorridere in altri Paesi europei, segna comunque un aumento rilevanti, di 0,4 punti percentuali rispetto al mese di febbraio.

Il coronavirus non ha però solo acuito disuguaglianze che erano già esistenti. Sono arrivati i “nuovi” poveri. Tra questi, le famiglie monoparentali e i giovani (soprattutto giovani!) impiegati nella gig economy, rider, trasportatori, operai edili, fattorini. Rispetto a questi “ultimi” – i nuovi schiavi – la quarantena diventa un segno di privilegio: secondo le stime del Bureau of Labor Statistics americano, ad esempio, solo il 9,2% dei lavoratori appartenenti al 25% dei meno abbienti ha potuto usufruire del telelavoro, contro il 61,5% di chi appartiene al 25% dei più ricchi.

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In queste settimane, per tutti – anche per “gli ultimi” – ci viene chiesto dallo Stato, un po’ improvvisamente, di farci tutti kantiani e di agire in nome del “bene collettivo” piuttosto che in nome della conservazione e dell’interesse individuale. Distanziamento sociale e mascherina!

In alcuni Paesi, queste disposizioni ci arrivano attraverso discorsi incentrati sulla paura. In Italia, mi ricorda Cacciari, “si è fatto di tutto per comunicare paura – si è affrontata la crisi allo stesso modo in territori dove la epidemia dilagava e in altri dove era assente o quasi. Paura ovunque e indifferenziati i messaggi: morti, feriti, ospedalizzati, guariti e basta. È certo che la diffusione della paura genera, volenti o no, comportamenti ‘da gregge’, obbedienti, acritici, anche se non credo faccia parte di un ‘piano’ – è frutto della debolezza, piuttosto, dei nostri governi.”

Il ricorso alla paura ci porta ad allontanare l’Altro da noi.

Ma il ricorso alla paura, che ci porta a vivere nell’immediatezza drammatica del presente, non apre forse la strada alla miseria di parole, idee e relazioni con gli altri?

Con la conseguenza che, quando la pandemia sarà finita e saremo liberi da obblighi imposti, sapremo ancora vedere le disuguaglianze che colpiscono le persone attorno a noi, vicine ma anche lontane? È sufficiente, da sola, la presente richiesta di distanziamento sociale per orientarci ad agire in modo solidare, equo e giusto in futuro? Chiederci ‘semplicemente’ di indossare la mascherina e istruirci a camminare distanti senza metterci in relazione con l’altro non rischia forse di dividerci ulteriormente da questo altro?

 

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