Se Idlib pensa a me

Marzo 2020. Auto-isolamento.

Mohamed vive in Siria, a Idlib, un nome arrivato a me per la prima volta il 4 aprile 2017. Il governo siriano era accusato di avere lanciato armi chimiche sui civili. Per settimane avevo provato a disegnare i volti dei bambini avvelenati nel sonno dal gas; mi era sembrato di violentarli ancora.

Quasi tre anni più tardi, l’8 febbraio 2020, Mohamed pubblica sul proprio profilo Facebook una fotografia dell’esodo in corso a Idlib, risposta della popolazione agli incessanti bombardamenti da parte dell’esercito governativo e dell’alleato russo.

Arrivata a me attraverso una catena di condivisioni, l’immagine mostra una ragazza seduta sul retro di un furgone aperto immersa nella lettura di un libro, la schiena appoggiata a un carico nascosto da un lenzuolo bianco.

Invio un messaggio a Mohamed, che mi risponde poche ore più tardi: la fotografia è autentica, opera di un suo amico. Iniziamo così a scambiare messaggi: una finestra sulla mia vita in cambio di una sua giornata. Lui vuole conoscere la mia Europa tanto quanto io la sua gabbia.

Se mai incontrerai qualcuno che convive con la morte, scoprirai che sogna come te.

Mohamed sogna di lasciare la Siria e di vivere in un luogo sicuro in qualche parte del mondo.

Questa mattina mi sono alzato alle 8 e mi sono immediatamente collegato al canale delle notizie per gli ultimi aggiornamenti su Idlib, dove la situazione è resa molto pericolosa dagli attacchi da parte delle milizie iraniane e dell’esercito di Assad e dai raid degli aerei russi. Un numero crescente di persone nel sud di Idlib si è messo in viaggio per fuggire la morte. Vorrei che i bombardamenti cessassero, che la Russia ascoltasse le richieste dell’esercito turco entrato a Idlib con soldati e veicoli militari per proteggere la popolazione. Ma la Russia non ascolta e insiste a uccidere la popolazione di Idlib, la cui sola colpa è di essere contraria al governo del criminale Assad. Dopo le tristi notizie, sono andato in un campo vicino alla città di Kafr Takharim, dove dozzine di famiglie di sfollati vivono all’aperto, al freddo; ho aiutato a distribuire pane e legna per il fuoco e ascoltato le loro storie, le storie dei loro bambini che non hanno più accesso a cibo, educazione, gioco. Il resto del pomeriggio ho partecipato a un training di volontari per la coordinazione di attività di supporto alla popolazione locale e visitato alcune scuole che sono diventate rifugio per persone che hanno perso la propria casa. I volontari stanno lavorando per trovare loro un alloggio alternativo e così riaprire le scuole ai bambini; ma manca il materiale di cancelleria, mancano i libri e gli insegnanti lavorano gratis, senza percepire stipendio. Il clima era mite oggi, circa 15 gradi centigradi, mentre le notizie annunciavano l’intensificarsi dei bombardamenti. In soli due mesi, il numero di persone costrette a lasciare le proprie case ha raggiunto un milione e mezzo; il mondo tace. Infine ho mangiato della pasta con un amico, sono tornato a guardare le notizie e ho cercato di contattare alcune organizzazioni per cercare aiuti per i bambini e gli sfollati. Forse domani scriverò ancora. Quanti anni hai?

 

Lo stesso giorno, prima di addormentarmi, stilo un elenco dei libri che porterei con me, che leggerei se intorno a me fosse guerra; ne scelgo sei, di cui due sottili, e li sposto in un angolo dedicato della libreria, insieme al cofanetto delle matite preziose.

 

Il 15 marzo 2020, Mohamed mi scrive, dopo qualche giorno di silenzio.

Ti pensavo impegnata, non volevo disturbare. Ma ero preoccupato.

Si accerta che io stia bene, che non abbia contratto il Coronavirus.

Mi raccomando, stai attenta. E non uscire.

Idlib, Siria, febbraio 2020. Traduzione del testo in arabo: Dio nel mio cuore, quando il mio cuore è spezzato. Dio nelle mie lacrime, ogni volta che cado. (Immagine di M.M. Riproduzione vietata.)
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