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Se la comunità la trovi nel quartiere ma non in parlamento

C’era una volta l’Italia del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, quella del “tutto cambia perché nulla cambi”. C’era una volta l’Italia del bicameralismo perfetto, concepito per evitare il ripetersi dell’esperienza fascista pur al prezzo di un sistema eccessivamente burocratizzato e poco reattivo di fronte agli shock esogeni. C’era, persino, l’Italia dei governi di solidarietà nazionale, quella che si stringeva attorno alle istituzioni, quando l’età delle stragi e della Guerra Fredda rendevano il futuro politico e sociale difficilmente pronosticabile.

E c’è l’Italia di oggi, quella che la crisi innescata dall’emergenza coronavirus sembra poter cambiare per sempre. A colpi di decretazioni d’urgenza, più che di lunghe discussioni in aula, il Paese sta cercando il modo di riprendersi da uno shock che riguarda tutti, ma che riguarda sempre qualcuno (e parlo qui dei ceti medio-bassi, indipendentemente se subordinati o autonomi) un po’ di più degli altri.

Cura Italia, Decreto Liquidità e Decreto Rilancio provano a reintrodurre dalla finestra quello che le politiche di austerity e i vincoli di bilancio avevano fatto uscire dalla porta, cercando di far ripartire la macchina dei consumi, ferma al palo. Ma in extremis, in modo estemporaneo e senza un disegno complessivo di rilancio che questa squadra di governo targata PD-5Stelle – forse proprio per la distanza ideologica che separa i due partiti – non è in grado di pianificare.

E anche l’opinione pubblica – indipendentemente dal colore politico di riferimento – sembra aver capito che la conta dei contagi e dei morti pur vicina allo zero in tutto lo stivale (Lombardia esclusa) non coinciderà necessariamente con un ritorno alla normalità. Chiedere, per credere, al settore dei concessionari auto, che ha fatto registrare punte del -97% del fatturato nel mese di aprile e ora rischia di mettere in discussione il futuro lavorativo di circa 120 mila dipendenti. Chiedere all’Istat che sempre nel mese di aprile fa registrare un calo dell’1,2% dell’occupazione su base mensile. Chiedere anche ai pubblici esercenti che verificano alla riapertura di maggio crolli generalizzati, attorno al 50% del fatturato. Sono dati che certificano ancora una volta la distanza abissale tra la realtà e le aspettative, tra il Paese reale e quello immaginato negli spot delle principali aziende del made in Italy, dove invece sembrano tutti investiti – dall’ultimo degli operai al mega direttore galattico di fantozziana memoria – da una rinnovata aura di senso civico e consapevolezza del bene comune.

L’Italia del COVID è un agglomerato di individui che si muovono senza un progetto condiviso.

Non è così: l’Italia è un agglomerato di individui che nemmeno nel momento di un’emergenza che ha investito tutti, pare in grado di trasformarsi in una vera comunità. E non parlo qui di appartenenza a radici, identità e tradizioni comuni che qualcuno vorrebbe rilanciare riprendendo vecchie velleità nazionalistiche – a proposito, la crescita di Fratelli d’Italia è costante e meriterebbe maggiore attenzione, proprio perché di quella voglia di comunità certifica la diffusione – ma di appartenenza a uno stesso progetto, a uno stesso destino. Una comunità che torni a parlare con quella voce universalistica di cui per tanto tempo si è fatta carico la Chiesa Cattolica e che oggi vive, anche laicamente, nello spirito solidaristico delle realtà di quartiere, dove fioriscono i banchetti con i beni di prima necessità per chi non arriva “a fine mese” e non si contano più le collette per i più fragili. Dove la povertà non è più vista come lo stigma di una colpa individuale, ma come la risultante di forze trascendenti la volontà dell’individuo. Dove l’indigenza non è il più il frutto di scelte sbagliate, ma la certificazione del fallimento dell’intero sistema.

Serve un’assunzione di responsabilità da parte di tutti per fronteggiare le disuguaglianze sociali acuite dall’emergenza coronavirus.

Questa è forse è la più potente sfida che l’emergenza coronavirus pone alla politica: saper estendere questo microcosmo solidal-comunitaristico a livello di sistema-paese, per voltare pagina non solo all’emergenza, ma anche alle storture macroeconomiche che la precedevano, a partire dalla disuguaglianza sociale. Ma servirebbe, per farlo, un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, che consenta di guardare oltre la normale dialettica maggioranza-opposizioni per superare il momento critico.

Dopo il 25 aprile, festa della Liberazione, derubricata ormai a “celebrazione divisiva” dall’intero centro-destra,  la contro-manifestazione in chiave antigovernativa in Piazza del Popolo a Roma – seguita a stretto giro di posta dai deliri sul palco dei gilet arancioni (che replicano in chiave involontariamente parodistica il peggio del complottismo nostrano) – ha dimostrato una volta di più che questo passaggio obbligato è ancora lontano dal realizzarsi: destituendo di senso le celebrazioni del 2 giugno, “festa della Repubblica”, si è tolto significato al concetto stesso di “res pubblica”. Quella che univa, pur nella distanza, tutte le componenti dell’arco politico. Quella che prima ancora di essere una realtà consolidata, era un valore, orizzonte di riferimento degli indirizzi politici e faro nella scelta di misure in cui concretizzarli. Quella che, almeno nella mente degli italiani, incarnava l’idea di un bene comune che forse c’era una volta e ora non c’è più.

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