Se la questione europea torna più forte che mai

di Valeria Camia

Il 24 dicembre il Regno Unito e l’Unione Europea hanno raggiunto un accordo che regola i rapporti commerciali bilaterali a partire dal primo gennaio 2021, quando il Regno Unito è ufficialmente uscito dall’UE. L’accordo è stato definito dal Financial Times un “divorzio amichevole” che permette alle due parti di continuare a scambiare merci senza l’imposizione né di dazi  né di quote e di proseguire la cooperazione già esistente in alcuni settori come sicurezza, energia e trasporti. Inoltre alle aziende britanniche ed europee è dato un accesso preferenziale al mercato della controparte, rispetto alle regole minime stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, viene revocata la possibilità per i cittadini britannici di lavorare, studiare, iniziare un’attività o vivere in Unione Europea liberamente, e nel caso di soggiorni superiori a 90 giorni dovrà essere fatta richiesta di un visto. Parimenti, l’accordo stabilisce la fine della libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea nel Regno Unito. 

In un editoriale apparso a inizio gennaio su The Economist, l’accordo è criticato per le lungaggini burocratiche che caratterizzeranno le prossime relazioni tra UE e Regno Unito e per l’assenza di riferimenti alla gestione della politica estera e la difesa britanniche, al punto che il settimanale si chiede: “Guardando attraverso i mari con un continente straniero alle spalle, un’Inghilterra solitaria si trova così di fronte a una domanda impellente: quale ruolo dovrebbe avere ora nel mondo?” Il partito Conservatore sogna una Global Britain, di un Regno Unito che estenda il proprio raggio d’azione e influenza al di là dell’Europa. Un ritorno al passato aureo dell’Inghilterra coloniale? La risposta che dà The Economist è semplice e schietta: Regno Unito non potrà darsi un ruolo globale se rimane avulso dalle relazioni (commerciali ma anche culturali e storiche) con l’Europa. 

Abbiamo chiesto a Edoardo Bressanelli, Ricercatore “Montalcini” in Scienza politica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Senior Visiting Fellow al King’s College di Londra, una riflessione sulle relazioni tra “UK” e UE.

Dottor Edoardo Bressanelli, possiamo prevedere che di “Brexit” continueremo a parlare oppure lei crede che il tema dei rapporti con l’UE occuperà uno spazio secondario nell’agenda politica britannica?

Brexit ha rivelato – se mi si passa il termine – una “italianizzazione” della politica britannica. Dal referendum ad oggi, ci sono state due elezioni anticipate, tre primi ministri, la più ampia sconfitta parlamentare di un governo nella storia britannica, rimpasti frequenti nella squadra di governo, defezioni ed espulsioni in parlamento, la creazione di – spesso effimeri – nuovi partiti…Insomma, del vecchio e stabile – quasi ‘noioso’ nella sua prevedibilità – modello Westminster non sembra rimanere molto. D’altra parte, però, la Brexit alla fine è avvenuta, e non è così diversa da una Brexit ‘dura’: niente più libertà di movimento, uscita dal mercato unico (anche se niente dazi e quote), nessun controllo da parte della Corte di Giustizia della UE. Alla fine, le opposizioni non sono riuscite ad ammorbidire la Brexit (anzi: il Labour ha votato a favore dell’accordo di Johnson) e suggestioni pur molto dibattute nel 2017 o nel 2018 (come quella di un secondo referendum) sono presto diventate lettera morta. Ne parliamo in un libro – scritto coi colleghi Gianfranco Baldini ed Emanuele Massetti – che uscirà sia in italiano (per Il Mulino) che in inglese (per Routledge) tra qualche mese. Sbaglieremmo, però, a pensare che di Brexit non si parlerà più, o comunque meno. L’accordo tra UE e UK è molto scarno su alcuni punti essenziali, come il settore finanziario, la questione scozzese è aperta e i partiti rimangono divisi sulla questione europea: i rapporti tra il Regno Unito ed il ‘continente’ rimarranno, molto probabilmente, un tema caldo della politica britannica negli anni a venire.

Rimanendo sulla questione scozzese, qual è la posta in gioco e in che modo il futuro della Scozia è intrecciato a quello di Boris Johnson, che si è presentato alla nazione come “il vincitore” dei negoziati con l’UE?

La Brexit ha reso le richieste per un secondo referendum sull’indipendenza scozzese più pressanti. Non dimentichiamo che la Scozia ha votato a larga maggioranza per il Remain nel 2016. Non è un caso che la leader scozzese Nicola Sturgeon abbia celebrato il nuovo anno augurandosi il ritorno della Scozia – come paese indipendente – nella UE. Il 2021 può essere un anno decisivo: se le elezioni per il parlamento scozzese daranno una forte maggioranza al Partito Nazionalista Scozzese, sarà difficile per Londra resistere alle richieste di un secondo referendum. La partita è aperta, e i costi politici per Johnson, potenzialmente, molto alti. Un’altra ‘exit’ – questa volta interna – è chiaramente nell’agenda politica. E qui veniamo alla leadership di Johnson, la cui ‘sopravvivenza’ è legata tanto alla Scozia quanto alla gestione della pandemia. Per il premier, il 2020 è stato un anno vissuto sull’ottovolante: dapprima in maniera trionfale, con la vittoria elettorale e la Brexit, poi in caduta libera nei sondaggi a causa della (difficoltosa, a essere generosi) gestione del COVID. La sfida ora è quella della vaccinazione di massa, in tempi record. Johnson si gioca molto: se la prova non sarà convincentemente superata, risulta difficile immaginare che la sua leadership non venga messa in discussione dal partito conservatore.

Nelle ultime settimane, i Paesi dell’UE hanno incrementato gli sforzi collettivi per fronteggiare la pandemia, hanno creato un fondo composto da 750 miliardi di euro e stanno creando un debito comune che dovrà essere ripagato con tasse comuni. E così anche in materia di distribuzione del vaccino contro il COVID. Questa solidarietà tra gli stati e accresciuta assunzione di responsabilità comune in che modo hanno influenzato i negoziati con la Gran Bretagna?

Innanzitutto, va ricordato come i negoziati tra Regno Unito e UE siano iniziati quando il COVID non esisteva ancora neppure nei nostri peggiori incubi! Il processo formale di uscita inizia a fine marzo 2017, e si sarebbe dovuto concludere dopo due anni. Nonostante i rinvii, il Regno Unito è infine uscito dall’UE il 31 gennaio 2020. Il mandato negoziale di Michel Barnier è stato formulato con chiarezza ben prima che scoppiasse l’epidemia e l’accordo di uscita ha definito tre questioni fondamentali, quella dei cittadini comunitari in UK e britannici nella UE, l’ammontare dei pagamenti britannici prima della separazione e la questione del confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Tutto questo si è concluso prima della pandemia. La negoziazione dell’accordo sulla futura cooperazione tra UE e UK, invece, è avvenuta in parallelo alla diffusione del virus. Mi pare, però, che la cosa abbia rappresentato un problema più per il Regno Unito che non per la UE. A livello amministrativo, Brexit rappresenta una sfida soprattutto per il sistema britannico, ed il costo economico di Brexit è asimmetricamente distribuito, con Londra in posizione di svantaggio. La gestione della doppia crisi – Brexit e Covid – ha quindi rappresentato un problema più per Johnson che non per la UE. Incidentalmente, quest’ultima ha saputo mostrare una grande capacità di adattamento alle crisi che, nell’ultimo decennio, l’hanno colpita.

Lei era in Inghilterra quando si è tenuto il referendum per l’uscita dall’Unione Europea. Come ha vissuto quei giorni e come ha appreso il risultato?

Mi ricordo distintamente la notte del referendum quando, alle 4.40 del mattino, lo storico presentatore della BBC, David Dimbleby, ha dichiarato la vittoria del ‘Leave’. Lo shock è stato forte, anche perché nelle mie due ‘bolle’ – quella di Londra, città fortemente schierata per il Remain, e quella accademica, anch’essa largamente pro-europea – il ‘Leave’ ed i suoi argomenti erano pressoché assenti. In realtà, bastava uscire dal centro di Londra per rendersi conto che la situazione era un’altra. La sensazione immediata è stata quella della fine di un’epoca, quella per cui per migliaia di italiani il Regno Unito ha rappresentato una possibilità di realizzazione personale e professionale. Un paese aperto, con un mercato competitivo dove poco conta da dove vieni, ma piuttosto cosa sai fare. Cosa ne sarebbe stato dei cittadini europei residenti nel Regno Unito? E a chi sarebbe arrivato da lì in avanti? Le risposte a queste domande si sono fatte attendere per quasi quattro anni ma, alla fine, le nuove regole sull’immigrazione renderanno molto più complicato prendere un volo low cost e ‘sperimentare’ l’esperienza di una metropoli come Londra. Lo potrai fare come turista, o avendo già un lavoro…In ogni caso, mi ha molto rattristato l’idea che un ‘cittadino’ comunitario sarebbe presto diventato un ‘migrante’. Veniva meno un’idea di comunità.

Davvero il risultato non era prevedibile?

Con il senno di poi è fin troppo facile dire che la Brexit era prevedibile. In verità, c’era nei mesi precedenti il referendum una certa convinzione – o forse supponenza – che il ‘Leave’ non avrebbe potuto vincere. Vuoi per la convinzione che gli elettori alla fine preferissero lo status quo anziché ‘rischiare’ l’uscita, vuoi perché Cameron aveva rinegoziato e, peraltro, ottenuto, alcune importanti concessioni dall’UE per limitare i benefici sociali per i cittadini comunitari, vuoi perché i leader dei due principali partiti – più i liberal-democratici, i verdi, i nazionalisti scozzesi… – sostenevano (anche se non tutti convintamente…) il ‘Remain’, la prospettiva dell’uscita appariva come lontana, se non irrealizzabile. Eppure, c’erano stati diversi segnali premonitori. Il partito euroscettico di Nigel Farage era finalmente riuscito a fare breccia a Westminster, vincendo due elezioni suppletive nel 2014 e, pur eleggendo un solo deputato alle elezioni del 2015, il supporto di ben 3.8 milioni di elettori è un serio campanello d’allarme per i conservatori. Il fatto stesso che lo stesso Johnson, allora sindaco di Londra e abilissimo a fiutare il vento politico, diventi uno dei principali leader della campagna per il ‘Leave’, ci dice molto sugli umori profondi del Paese, in particolare nelle aree non metropolitane, le campagne, le aree più disagiate economicamente e socialmente. Umori profondi che non sempre i commentatori e gli studiosi riescono a cogliere.

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