Se si imbratta ma non si cambia

Nel cortocircuito dell’ondata di indignazione sorta in seguito alla morte di George Floyd, l’afroamericano rimasto ucciso durante l’arresto a Minneapolis, c’è anche questo: che in Italia il seguito della Black Lives Matter si sviluppi scegliendo come obiettivo polemico della lotta…la statua di Indro Montanelli. Avete capito bene: non i decreti Salvini e Minniti che hanno fatto lievitare le statistiche sui morti nel Mediterraneo; non gli episodi di violenza (certamente meno diffusi) da parte degli agenti delle forze dell’ordine; nemmeno la parzialissima sanatoria sui braccianti voluta dal Governo Conte. Ma la statua di un giornalista, avversata sia dal fronte antirazzista che da quello antifascista. E infine da quello femminista.

La storia risale agli anni ’30, quando, durante la guerra in Etiopia, Montanelli, soldato al fronte, sfrutta un’usanza locale per fare di Destà (una ragazzina eritrea di 14 anni), la sua sposa, almeno per il tempo della permanenza in Africa. Legittimo secondo i costumi dell’epoca in Abissinia, ma non in Italia, dove Montanelli – nell’arco della sua vita, durata fino al 2001, riceve numerose critiche. Senza mai abiurare la scelta. Tanto che la statua a lui dedicata, costruita nel 2006 nei giardini di Porta Venezia, diventa ben presto bersaglio privilegiato di diversi movimenti legati ai centri sociali.

L’imbrattamento della sua statua a Milano, a pochi giorni di distanza dalla manifestazione nazionale di Black Lives Matter (BLM) infatti non è il primo in realtà. Un episodio analogo era accaduto lo scorso anno, l’8 marzo, nel giorno della Festa delle donne.

E allora viene da chiedersi all’origine della singolare battaglia contro la statua, cosa ci sia? La lotta al razzismo? Quella al fascismo? O, ancora, una battaglia femminista? In realtà, verrebbe da dire, seguendo l’approccio di chi ha preso parte attiva alle proteste, dichiarandosi a favore dell’abbattimento, tutte e tre le cose insieme. Ma proprio qui sta il punto: è conveniente, prima ancora che giusto, che una battaglia come quella del contrasto al razzismo (ma il discorso varrebbe anche per le lotte ambientali che hanno animato gli ultimi Fridays for future o quelle sulla precarizzazione dei docenti nelle scuole) si allarghi a tal punto da non riuscire più a distinguere quale sia l’obiettivo concreto della protesta? O non è forse il caso di dire che proprio l’allargamento della base e l’insistenza sulla lotta simbolica possa avere come effetto inversamente proporzionale quello di una scarsa efficacia a livello reale, di modificazione nei rapporti di forza e di concretizzazione di questo cambiamento in nuove politiche pubbliche?

Quello che notiamo, stando all’agenda mediatica e alle numerose firme illustri che si sono prodigate nella difesa o condanna dell’imbrattamento della statua (Da Gad Lerner a Marco Travaglio, passando per Giuliano Ferrara e Nicola Porro), è che si sono aperte le porte a una polarizzazione dell’opinione pubblica, capace, in pochissimi giorni, di svuotare di senso il messaggio di BLM, trasformato da lotta per la modifica di reali rapporti di forza in un dibattito sull’iconoclastia. Perché non abbattere allora le statue del colonizzatore Cristoforo Colombo o ritirare le targhe delle scuole dedicate a Pasolini, si chiedevano i detrattori del gesto nelle puntate televisive dedicate all’argomento? Pian piano, la trappola ha sortito il suo effetto.

Il dibattito sulla statua di Montanelli è slittato dal concreto all’astratto, dal reale al simbolico, facendo il gioco della conservazione dello status quo.

E anche intellettuali del calibro di Christian Raimo, autore di “Contro l’identità”, alla fine, hanno ceduto alla curiosità del nuovo giocattolo mediatico, dedicando particolare attenzione, sulle proprie pagine social, alle cause della nuova iconoclastia, dimenticando di dedicare, però, altrettanta attenzione al fine di questa operazione. Che rimane fuori portata, poco meditato e confuso.

Si ammette e si ricerca l’intersezione tra le battaglie (antirazzismo, antifascismo e femminismo, in questo caso) per allargare la base. Ma poi si finisce per vedere queste battaglie egemonizzate dal gruppo più radicale, a cui basta un gesto divisivo, come l’imbrattamento di una statua, per far calare di nuovo i consensi. Così l’equivalenza fa il suo corso: “I manifestanti sono quelli che imbrattano le statue” – pensa l’opinione pubblica. E tutto torna al punto di partenza. Ma non è solo colpa degli “altri”. Perché se non si può essere antirazzisti senza essere femministi, se non si può essere antifascisti (o ambientalisti) senza essere anticapitalisti, ci si perde in consensi ma si guadagna in purezza. Nel nome di un eterno presente. In cui tutto cambia, a livello simbolico, per nulla cambiare a livello reale.

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