Se un architetto incontra in piazza un regista

di Andrea Foppiani

Una coppia attraversa un vasto spazio aperto, la pavimentazione luccicante e cangiante dopo una pioggia, con il disegno dei blocchetti di granito annegati nel calcestruzzo che si combina con le vaghe geometrie delle pozzanghere. Silenzio, una melodia di sottofondo… sguardi e poi il rumore dei loro passi. L’uomo, capelli grigi, soprabito scuro, occhiali da vista tartarugati, appare enigmatico; la donna, una bella giovane bruna sotto la trentina, gli sorride e lo prende a braccetto. L’inquadratura si muove da un capo all’altro della piazza, mostrando gli edifici che la circondano come quinte teatrali di spettacoli diversi, di epoche diverse, mentre quattro volumi spigolosi emergono agli estremi dello spiazzo, tra la superficie orizzontale di Piazza del Sole e quella verticale delle case, dello sperone roccioso, delle mura del castello.

La scena è girata a Bellinzona, Canton Ticino, e ticinese è l’architetto a cui si deve la realizzazione di questa scenografia urbana, mentre il regista che la prende a prestito è nato più a sud, sotto il sole tutto italiano che illumina Napoli. Livio Vacchini è il nome del progettista, il film invece è “Le conseguenze dell’Amore”, secondo lungometraggio di Paolo Sorrentino, distribuito nel 2004, con Toni Servillo e Olivia Magnani.

Paolo Sorrentino ci presenta un personaggio ermetico, solitario, apparentemente insignificante, che vive tra filiali di banca e stanze d’albergo una vita ripetitiva, monocolore. Il film rivela, poco per volta, i segreti che quest’uomo (Titta di Girolamo, interpretato da Toni Servillo) nasconde dietro la routine della sua vita nella Svizzera Italiana, modificata dall’incontro con Sofia (Olivia Magnani). Aridità, cinismo, ma anche sconvolgimento e liberazione sono tra le tematiche del film, che si presta a diversi livelli di lettura, presentando una vicenda dai risvolti e dal finale inaspettato, dettato dalle conseguenze dell’amore, come da titolo.

Ma torniamo alla scena della piazza, più o meno a metà film. Non dura molto, ma sfrutta in modo singolare la peculiare spazialità pensata e progettata da Livio Vacchini (Locarno, 1933 – Basilea, 2007), usando l’apparente semplicità dello spazio inquadrato per immergervi i due silenziosi personaggi. L’architetto, tra i rappresentanti della Scuola Ticinese, si confronta con un luogo particolare della città: un vuoto generato dalla demolizione di un isolato urbano a ridosso delle mura del Castelgrande, un castello edificato prima dell’anno Mille su uno sperone roccioso che emerge al centro dell’insediamento urbano, restaurato dal collega Aurelio Galfetti nei primi anni Novanta.

Lo spazio della piazza, realizzata tra il 1996 e il 1999, ma progettata già durante il decennio precedente, è occupato da un grande pavimento quadrato di sessanta metri di lato, ai quattro vertici del quale emergono altrettante costruzioni scultoree in calcestruzzo, che nascondono gli accessi ad un parcheggio interrato sottostante. Il disegno della pavimentazione richiama quello di un cielo stellato, mentre il nome della piazza si deve ad uno storico caffè che vi sorgeva, chiuso negli anni Cinquanta. Sempre agli elementi naturali si richiamano le quattro piccole costruzioni, che mediano il rapporto tra l’orizzontalità della piazza e la verticalità della città costruita attorno, con linee spezzate che idealmente si legano a quelle della roccia su cui sorgono le fortificazioni, quasi dichiarando la propria estraneità rispetto all’ortogonalità delle costruzioni circostanti. Una lunga panca è generata dai bordi della pavimentazione, posta ad un livello differente rispetto all’asfalto, dando forma ad un vuoto, come un volume virtuale, profondamente poetico, che valorizza e regola i rapporti tra i diversi elementi e i diversi materiali che vi si affacciano: castello, mura, roccia, palazzi, vetrine, portici.

Come spesso i Maestri dell’Architettura ci insegnano, il caso della Piazza del Sole è un chiaro esempio di come un buon progetto sia composto da pochi elementi essenziali combinati tra loro e con il contesto tutt’attorno. Nel totale rispetto di un luogo dall’identità storica e paesaggistica così forte, trova posto un autosilo, occultato e trasformato nel basamento stesso di una piazza e di un intero castello, nel pieno centro di una città come Bellinzona. Un disegno puro e semplice, due materiali (calcestruzzo e pietra) e un raffinato gioco di livelli sfalsati e sovrapposti, evocano in modo primordiale il patrimonio culturale, artistico e paesaggistico del capoluogo ticinese; un dialogo aperto tra usi e forme, tra passato, presente e futuro.


Andrea Foppiani studia presso il Politecnico di Milano. Neolaureato in Progettazione dell’Architettura, sta proseguendo gli studi in Sustainable Architecture and Landscape Design presso lo stesso ateneo.

 

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