Sette opere di misericordia

Napoli è una città complessa: la Storia l’ha trasformata, in poco più di centocinquant’anni, da terza Capitale d’Europa in una delle città più problematiche del mondo. Napoli è forse la città più raccontata d’Italia; da secoli si cerca di spiegarla. La definizione più pittoresca e sbrigativa, che dura da diversi secoli e che il filosofo Benedetto Croce ha scelto come titolo per un suo saggio, la raffigura come un “paradiso abitato da diavoli”. Da napoletano, sono sempre interessato a leggere scritti sulla mia città, o ambientati nella mia città, anche se la maggior parte di essi si concentra sui suoi aspetti estremi: le descrizioni da cartolina, dove tutto è favoloso, o quelle terroristiche, dove tutto è delinquenza. Perché Napoli, si sa, è una città estrema: ciò che è bene è ottimo, ciò che è male, pessimo. Naturalmente ci sono diverse, notevoli eccezioni. L’ultima, in ordine di tempo, è il romanzo pubblicato da Neri Pozza qualche mese fa, “Sette opere di misericordia”, di Piera Ventre. La Ventre non è una scrittrice di professione, e lo dico in senso positivo, nel senso che, facendo un altro lavoro per vivere, pubblica solo quando ha qualcosa da dire. Il suo romanzo precedente, “Palazzokimbo” risale al 2016.

Chi, come me, è stato bambino a Napoli nei primi anni ’80, non potrà mai dimenticare il terremoto: non solo la terribile serata di domenica 23 novembre 1980, che causò migliaia di vittime in Campania e Basilicata, ma anche la seconda terribile serata, quella relativa alle scosse del 14 febbraio 1981, che fece, sì, meno danni, ma spaventò moltissimo noi bambini, ormai consapevoli. Chi, come me, è stato bambino in Italia nei primi anni ’80, non può inoltre dimenticare la caduta del piccolo Alfredino Rampi in un pozzo artesiano a Vermicino, nei pressi di Roma. Era giugno, era la fine della scuola. Inviati della televisione e di tutti i giornali si affollarono per giorni in quel luogo fino ad allora sconosciuto, inaugurando, inconsapevolmente, quella che pochi anni dopo sarebbe diventata la “TV del dolore”.

A Napoli, nei mesi che vanno dal terremoto alla tragedia di Alfredino, si svolge la storia che Piera Ventre ci racconta in questo romanzo. Non troverete Via Caracciolo e neppure Posillipo in queste pagine, ma i quartieri popolari, con la loro anima vibrante, e perfino un camposanto, dove vivono i protagonisti della storia: i membri della famiglia Imparato. Cristoforo, il capofamiglia, un occhio di vetro a causa della scheggia di una granata, non è stato sempre un “camposantiere”. Impiegato in una tipografia, era riuscito ad affittare un appartamentino nel quartiere Materdei, fino a che, con la chiusura della tipografia, la sua vita è andata sottosopra, fino a fargli accettare il posto di custode, con residenza proprio al cimitero. Sua moglie Luisa è una donna disillusa, la cui bellezza comincia a sfiorire; la figlia Rita, un’adolescente inquieta che non disdegna di frequentare l’umanità che si raduna nei pressi dell’albergo dei poveri, umanità vinta ma non sconfitta; e infine Nicola, il piccolo di casa, bambino di una sensibilità non comune, alle prese con l’esame di licenza elementare. Nella modesta casa della famiglia Imparato c’è posto anche per Rosaria, amica e compagna di scuola di Rita, cacciata di casa perché incinta, per Nino, figlio del compare di nozze di Cristoforo, e per Luisa, ospite a Napoli prima di trasferirsi in Germania. Persone tanto diverse fra loro, ognuna con i propri dubbi, ognuna con le proprie sconfitte, anche premature, ognuna con le proprie speranze. L’autrice riesce a descrivere i protagonisti in dettaglio, interiormente ed esteriormente, come pennellate di Caravaggio, quell’artista tanto presente in quest’opera. Ci sono altri protagonisti in questo romanzo, che umani non sono: l’arte che, attraverso il Caravaggio e le sue opere, in particolare le “Sette opere di misericordia”, diventa vita. (A proposito, se non avete ancora visto questo capolavoro, fatelo la prossima volta che visitate Napoli; l’opera si trova nel centro antico, in via dei Tribunali). 

E poi, naturalmente, c’è Napoli che, con una pennellata delle sue, la Ventre descrive con poche, essenziali parole: “Non era cambiato molto, in fin dei conti, dalla sua giovinezza desolata. In quella città, la guerra non era mai finita. Ne cominciava una ogni mattina, e non faceva in tempo a dissolversi per confluire in un altro principio di emergenza”.

La grandezza di Piera Ventre in questo romanzo, come già in quello precedente, sta nel saper descrivere l’energia e i tormenti delle vite ai margini, le vite delle tante persone comuni, che non sono famose, non sono delinquenti e di conseguenza non fanno notizia; l’autrice riesce a tirarne fuori la bellezza nascosta, quella non evidente ai più. Un altro grande pregio dell’autrice è la lingua: ricca, ma non pomposa; sicura, ma senza autocompiacimenti; scorrevole, ma non superficiale.

Leggendo questo libro imparerete ad amare Napoli un po’ di più, perché, attraverso i suoi margini, raggiungerete la sua anima. Buona lettura!

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