Sfide e opportunità di “lavorare comunicando”

È ormai evidente che il telelavoro, adottato come rimedio al blocco delle attività dovute alla presente pandemia, si sta rapidamente evolvendo in un fenomeno che prelude, se non addirittura anticipa, alcuni dei prossimi cambiamenti della nostra società. Su questo argomento abbiamo intervistato l’economista Christian Marazzi, uno dei massimi esperti delle evoluzioni del mondo finanziario e attuale responsabile del Centro competenze lavoro, welfare e società presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera Italiana di Manno, in Canton Ticino.

Professore, la pandemia ed il lockdown hanno portato le attività economiche a preferire il lavoro a distanza. Secondo lei, nel mondo accademico comunicare in modo digitale può sostituire o solo affiancarsi al dialogo tra le persone? 

All’inizio della crisi pandemica il lavoro a distanza è stato introdotto come misura emergenziale, per garantire la continuità di tutta una serie di attività non solo burocratico-amministrative, ma anche creative, innovative e formative, che i supporti informatici rendevano possibili. Niente di nuovo; lo smartworking esisteva da tempo, benché non fosse mai veramente decollato, dato che per anni ha rappresentato uno scarso 2% delle modalità lavorative complessive.

Il COVID-19 ha però stravolto il rapporto tra capitale e lavoro, amplificando l’uso del lavoro a distanza, parallelamente a tutta una serie di attività “in presenza”, “residenti”, confrontate con le molte difficoltà e i rischi sanitari che ben conosciamo, se solo si pensa a chi ha continuato a lavorare negli ospedali, nel settore della distribuzione, nella logistica. Con la ripartenza, un certo numero di coloro, che in questi mesi di lockdown sono rimasti a casa a lavorare, sono ritornati sul posto di lavoro, come ad esempio nell’amministrazione pubblica o all’interno di molte aziende. Il ritorno dall’una all’altra modalità, mi è stato riferito, non è stato traumatico perché “ci si riabitua rapidamente”. Resta il fatto che la giustapposizione di queste due modalità radicalmente diverse di lavorare, in remoto e in presenza, è destinata a durare nel tempo, anche perché siamo ormai entrati in una fase storica in cui il rischio sanitario continuerà a incombere sulle nostre vite. Nella “società della cura”, la società in cui lavoro e vita ruotano attorno all’istanza della cura, il “lavorare comunicando” si conferma come la nuova natura del lavoro. Il problema che si pone è se la comunicazione che permea le diverse modalità del lavorare, inclusa quella a distanza, assicura o meno la produzione di valore sociale, oltre che di valore economico.

Con il lavoro a distanza, la sfida sarà quella di assicurare la produzione di valore sociale, oltre che economico.

In azienda, ad esempio, gli scambi informali (pausa caffè, pausa sigaretta, ecc.) sono da tempo considerati strategici per la produzione di “saperi taciti”, quei saperi dove si annida l’innovazione e la creatività. Occorrerà curare la comunicazione: nell’ambito dell’insegnamento, ad esempio, credo che una combinazione tra le due modalità di lavoro sia indispensabile: senza il contatto diretto con gli studenti è difficile trasmettere sapere e conoscenza, si corre il rischio di “disumanizzare” l’umano, la sua corporeità, fatta di gesti, di sguardi, di tonalità emotive, di felicità e sofferenza.

Oltre al distanziamento comunicativo e sociale, da economista: quale impatto questa crisi può avere sui rapporti tra le classi produttive della nostra società?  Per esempio consideriamo la questione dei lavoratori a distanza e quelli “residenti” in azienda.  Il telelavoro si avvia a creare una nuova categoria di lavoratori svantaggiati?

Si rischia un’ulteriore spaccatura, oltre a quelle che già abbiamo visto all’opera in questi ultimi due decenni di trasformazioni del mondo del lavoro: tra garantiti e precari; a tempo pieno e sottoccupati, ecc. Già il fatto di chiamare smart il lavoro a distanza è un’aberrazione semantica: come se il lavoro intelligente e autonomo si identificasse con quello da casa. La pandemia ci ha mostrato quanto smart, densi di competenze e capaci di gestire gli imprevisti, siano i lavori essenziali, quelli appunto “in presenza”. Non solo i medici e le infermiere, ma anche le operatrici socio-sanitarie e quanti ci hanno portato a casa il cibo e le medicine, e chi ha pulito le strade e le corsie degli ospedali in tempi di virus dilagante. Per non parlare degli operai e delle operaie rientrati al lavoro che si confrontano con le nuove norme di sicurezza e con l’autonomia e la responsabilità che gli viene dal confronto con quelli con cui si lavoro fianco a fianco. Attenti a queste distinzioni, si corre il rischio di frantumare verticalmente il mondo del lavoro e di conseguenza di acuire le stratificazioni/discriminazioni salariali. Occorre un approccio analitico per permetta di fare in modo che un lavoro, che diventa sempre più personale e autonomo, non aumenti l’arbitrio dei decisori. È il contenuto concreto del lavoro che va fatto valere, sia che si lavori da casa o in ufficio. Per non parlare della differenza tra uomo e donna, la densità abitativa, il fatto che il risparmio di tempo per andare a lavorare può non essere affatto “tempo liberato”, ma tempo di lavoro aggiuntivo di cura di figli o anziani a causa della mancanza di servizi pubblici.

Durante la crisi del 2008-2009 gli interventi statali si sono concentrati a salvare il sistema economico piuttosto che gli impieghi. A suo giudizio si può ipotizzare che tra i provvedimenti per favorire la ripresa oggi vengano decise anche misure a tutela dei posti di lavoro? Per esempio, in Svizzera si è iniziato a concedere lavoro ridotto e crediti per sostenere le imprese.

Ipotizzare si può sempre, ma nella realtà dei fatti quello cui assisteremo sarà una ondata di razionalizzazioni dei processi lavorativi e produttivi, vale a dire un’ondata di licenziamenti, e questo proprio in virtù della normalizzazione del lavoro a distanza. È del direttore di una delle più grandi banche svizzere l’affermazione secondo cui l’esperienza del lockdown e del lavoro a distanza ha permesso di individuare un margine importante di risparmio del personale e, anche, di risparmio di spazio, tale da prevedere la chiusura di un certo numero di filiali in Svizzera. Quindi, non illudiamoci. D’altra parte, le misure della Confederazione a sostegno delle aziende tramite la garanzia dei crediti bancari va intesa per quello che è: si tratta di indebitamento che peserà non poco nella fase di ripresa, nel senso che per molte imprese si tratterà di valutare bene se riassumere personale, fare investimenti (digitalizzare) o altro per poter reggere la concorrenza e, soprattutto, per far fronte alla domanda di beni e servizi attesa. È per questa ragione che sarebbe opportuno introdurre qualche misura di sostegno della domanda, quali un reddito di pandemia, o di base o di cittadinanza.

Il lavoro ridotto, certamente una misura importante, ha comunque comportato una riduzione lineare del 25% dei salari (20% più gli oneri sociali calcolati sul salario pieno).

Moltissimi indipendenti si sono trovati senza un soldo e nei prossimi mesi l’ondata di fallimenti si farà sentire. Il modo migliore per tutelare il lavoro è di pagare il non lavoro, cioè garantire la continuità del reddito e dei diritti sociali in generale. È su questo terreno che si gioca il nostro futuro prossimo.

I momenti di crisi solitamente hanno anticipato ripensamenti nei modelli di impresa e sociali.  Secondo lei la crisi del coronavirus verso quale economia o nuove opportunità ci stanno portando?

Questa è una crisi epocale, simile a quella degli anni Trenta che, dopo la Seconda Guerra mondiale, permise l’affermazione dello Stato sociale, del Welfare State sull’onda dell’esperienza del New Deal di Roosevelt (…e di Keynes). Oggi ci troviamo confrontati con l’eredità di trent’anni di attacchi allo Stato sociale da parte delle politiche e di politici neo-liberali, contrassegnate da misure d’austerità assurde e devastanti. Chi ha sostenuto queste politiche è sempre al potere, quindi tra breve c’è da aspettarsi un contrattacco contro queste stesse misure messe in campo per salvare l’economia nella crisi pandemica. A fronte del cumulo di debiti pubblici e privati si cercherà di tagliare la spesa sociale. Mentre si continuerà con le politiche monetarie ultra-espansive, anche in Svizzera, fosse solo per contrastare la rivalutazione del franco a sostegno delle esportazioni, che, come già stiamo vedendo, favoriscono i mercati finanziari e in tal modo, come è avvenuto negli anni seguenti la crisi del 2008, aggravano a dismisura le disuguaglianze.

È pur vero che la storia dimostra che, confrontati con un nemico comune, come accade in una guerra o in una crisi pandemica, un paese è capace di trovare un suo punto d’equilibrio solidale. È quanto accaduto in Svizzera dopo la seconda Guerra mondiale con l’introduzione dell’AVS: e pensare che era stata osteggiata per 25 anni dai liberisti di allora, tutti a dire che il rischio vecchiaia andava affrontato con la responsabilità individuale.

Una rinascita dello Stato sociale è possibile, ma bisogna combattere perché si realizzi.

Una rinascita dello Stato sociale è possibile se proprio lo Stato si attiverà a investire in settori quali la sanità, la socialità, la formazione e la ricerca, la cultura e, naturalmente, nell’ambiente. Sono tutti settori in cui l’uomo lavora per l’uomo, in cui la finalità del produrre non è l’oggetto, la merce, ma il soggetto, la sua qualità di vita, il suo benessere. Un modello economico centrato sull’attività umana, su maggiore giustizia e responsabilità collettiva.

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