Storie di giovani picchiatori e di vecchi stereotipi

Intervista alla scrittrice Manuela Mazzi
Foto generica di una banda di ragazzini

“Siamo sicuri che la Svizzera sia una società felice? Che il nostro giardino sia sempre più verde di quello del vicino? Mi auguro che il mio libro possa dare un calcio alla gamba del tavolo su cui banchettano i cliché più disparati per vedere se qualcuno di questi casca a terra e si sgretola”

Negli anni Ottanta – quelli del cubo di Rubik, del punk rock, delle spalline, dei paninari, di Tony Manero e la disco music, della caduta del muro di Berlino, della “Milano da bere” – nella Svizzera Italiana cresceva una generazione particolare, che amava “menare le mani”. È disponibile in libreria “Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta” (prefazione di Giulio Mozzi, postfazione di Ermanno Cavazzoni), scritto dalla giornalista e scrittrice locarnese Manuela Mazzi. Il giovane pugile Matt Stehnermeier, detto Nitro, il suo compagno di avventure Gerry detto Glicerina, Cristina Brusino detta LouLou c’est moi – unica donna-, sono solo alcuni dei protagonisti di questo racconto che svela, seppur in modo romanzato, una realtà che non ti aspetti. Sì, perché sembra difficile immaginare che in un paese così “ordinato e tranquillo, dove si sta bene” come la Svizzera, ci fossero delle bande agguerrite sparse sia nelle aree metropolitane che nelle periferie. Leggere per credere: nel libro si racconta di capibranco, gregari, picchiatori liberi e gang. Abbiamo intervistato l’autrice per capire da dove nascesse per questi ragazzi l’esigenza di picchiare, ma anche per guardare alle nuove generazioni, “oppresse” sicuramente da problemi diversi, ma fondamentalmente legate a quelle precedenti dalle stesse difficoltà del “crescere”.

Manuela Mazzi

Il suo libro – mi corregga se sbaglio- è una fiction ispirata a fatti realmente accaduti. C’è una delle storie raccontate nel suo libro che l’ha colpita particolarmente? Se sì, perché?
“Non sbaglia. È una fiction ispirata a fatti realmente accaduti, una sorta di romanzo non romanzesco. A colpirmi, più che altro fu la dichiarazione del protagonista del romanzo, “Matt, detto Nitro”, quando mi offrì la sua storia, cioè la storia di un ex giovane picchiatore “non pentito”. Quel “non pentito” mi colpì”.

Lei racconta il disagio giovanile emerso negli anni 80 nella Svizzera italiana. Una fotografia un po’ spiazzante per la maggior parte degli Italiani (ma anche di tanti altri stranieri), che ha sempre immaginato la Svizzera come “il paese di Heidi”. Secondo lei qual è la funzione sociale, se c’è, del suo racconto? Mi spiego: il suo libro può essere un modo per raccontare che ogni società, anche la più felice, ha delle sue fragilità?

“Quando mi misi a scrivere questo libro, durante un confronto, Giulio Mozzi, curatore della collana Fremen per Laurana editore, mi chiese: «Ma in Svizzera come verrebbe preso questo libro? Seriamente, o come una narrazione surreale?». Gli risposi: «Seriamente, perché, invece in Italia?». In Italia, come lei dice bene, è difficile credere che in Svizzera possano “capitare” cose così.
Alessio Moitre, gallerista torinese, lanciando il “Breve trattato” (abbrevio) sul sito webzine Outsiders ha scritto: «…la verità è che della Svizzera, a parte una ben considerevole mazzetta di stereotipi, non so poi molto» ritenendo utile il romanzo non romanzesco in questione per «far comprendere aspetti della nazione che ci fa in parte da cappello e che osserviamo sovente con ignoranza, ma con una presunzione di conoscenza notevole». E credo abbia colto una parte fondamentale del libro.
Non sono una sociologa, tengo a sottolinearlo. In quanto svizzera, ticinese, sono tuttavia ben informata sull’opinione che in generale all’estero si ha della Svizzera (senza fare tra l’altro distinzione tra Ticino, Zurigo e Ginevra; che è come riuscire a riassumere come si vive in Italia senza distinguere Napoli da Milano, Cagliari da Trento). E non solo fuori confini, ma anche all’interno. Ho avuto modo di confrontarmi, spessissimo, con italiani che vivono da quattro o cinque anni in Ticino. E ho notato sempre un fatto incredibile: resiste un’idea di Svizzera (ma io preferisco parlare del Ticino, perché non oserei dire come si vive a Zurigo o a Ginevra, visto che non ci sono mai vissuta), dicevo, così stereotipato e incistato nell’immaginario che io stessa fatico tantissimo a mostrare la realtà. Quando ci provo mi scontro sempre con persone di ogni estrazione sociale che mi antepongono lo stereotipo come fosse “legge”. Se la persona vive in Svizzera, e di solito non ci vive necessariamente bene, si convince che la differenza stia tra “svizzeri e stranieri”, così mi prendo anche della razzista, come se loro vivessero meno bene rispetto all’idea che s’erano fatti solo perché stranieri in Svizzera. E alla fin fine, incredibilmente, vince sempre lo stereotipo. Quindi, sì, questo libro mi auguro possa dare un calcio alla gamba del tavolo su cui banchettano i cliché più disparati per vedere se qualcuno di questi casca a terra e si sgretola. Se proprio vogliamo trovargli una funzione sociale. In verità non ho voluto parlare di disagio giovanile (anche se è ciò che emerge). Con le schede dei singoli picchiatori ho voluto raccontare gli individui e non un insieme. Ho raccontato personaggi singolari che per un tratto della loro vita hanno avuto a che fare fare con risse e cazzotti, e ho cercato di raccontarli applicando una sospensione del giudizio pressoché totale. Ma soprattutto, no, non ho scritto questo libro «per raccontare che ogni società, anche la più felice, ha delle sue fragilità». Non avrei potuto, non ritenendo la società ticinese “più felice” di tante altre. Ma semmai per dire: siamo sicuri che la Svizzera sia una società felice? Che il nostro giardino sia sempre più verde di quello del vicino? Se volete vi racconto la Svizzera in cui sono nata, cresciuta e in cui ancora vivo. O almeno il Ticino”.

Nel suo libro lei racconta in modo romanzato storie reali di picchiatori che non si sono pentiti. Questo mi fa pensare che la loro violenza non fosse mai una manifestazione estemporanea di rabbia, fine a sé stessa, ma un mezzo per comunicare qualcosa. Al netto del fatto che tutti condanniamo gli atti di violenza, questi ragazzi cosa volevano dire?

“Non tutte le storie raccontate nel libro sono reali, essendo un romanzo. Ci sono molti modi attraverso cui un giovane può ribellarsi, o anche solo convogliare un eccesso di energia, alcuni sono più nobili di altri, siamo d’accordo. C’è chi studia studia studia perché c’è portato. C’è chi si dà allo sport, alla musica, a un’altra arte. C’è chi ha un sogno da raggiungere, un obiettivo e ci investe tutto. E poi c’è chi cerca una strada. Che cosa vogliono dire dunque gli adolescenti nei loro momenti di ribellione? Forse nulla. Forse cercano solo di prendere il controllo della realtà, della vita che tanto li spaventa affrontare. Forse vogliono solo affermare la loro presenza”.

Secondo lei questi ragazzi si sentivano invisibili e, picchiando, volevano semplicemente essere visti? Oppure, andando oltre, volevano essere anche accettati ed entrare a far parte attivamente della società?

“Una cosa credo si possa affermare con certezza: nulla era fatto con ragionata consapevolezza. A volte, di fronte a fenomeni o eventi che ci inquietano o non comprendiamo, sentiamo di avere bisogno di una spiegazione, di una ragione. Ancora oggi alcuni di loro, la ragione di quel comportamento, non la sanno dire. Per Matt fu l’unico modo per non continuare a subire angherie, e perché i suoi coetanei esaltavano le sue gesta. Perché dunque? Perlopiù si parla di noia, legge del branco, cattivi riferimenti cinematografici, alcol. Certo, un sociologo, o forse tutti i sociologi di tutte le epoche parlano di disagio giovanile, di mancanza di spazi e stimoli positivi e via elencando concetti precostruiti. Io inizio a dubitarne. Intanto credo sia sbagliato parlare di “giovani” come un insieme globale – che è come dire “la gente” – perché i “picchiatori” di ieri e quelli di oggi restano comunque una minima parte dei “giovani tutti”. E proprio per questo non generalizzerei nemmeno la o le ragioni. Si tratta di storie individuali, ognuno con la propria. Certo è che questo tipo di giovani sono quelli che si fanno più notare. E poi esiste quello che Giulio Mozzi potrebbe chiamare il “male naturale” …, esistente al di là di qualsiasi ragione”.

Mi ha colpito molto il fatto che questi ragazzi, pur non pentendosi mai delle loro azioni, crescendo non si siano costruiti “una vita da banditi”, ma una vita socialmente accettabile e accettata. Qual è stata la spinta che li ha portati a superare quella fase di rabbia? È stato merito di un processo personale o ad accompagnarli c’è stato pure un cambiamento a livello sociale?

“Qualcuno tuttavia è morto. Quelli che ce l’hanno fatta sono semplicemente riusciti a sopravvivere all’adolescenza, che è l’unico vero compito di un giovane, la sfida più difficile (ché Cavazzoni ha ben intuito il senso dell’opera, parlando nella sua postfazione della curva del testosterone, della fine del «paleolitico individuale», che avviene quando si entra nella «prosa, nel tempo dei mestieri e della civiltà urbana legale»). Sono dunque maturati. Qualcuno si è innamorato. Qualcuno si è comunque pure pentito. Il picchiatore non pentito è Matt, ma si dice non pentito – va spiegato – perché pentirsi è facile. Molti, al contrario di quel che potrebbe apparire dal Breve trattato, hanno manifestato disappunto verso eventi violenti di oggi, a tal punto da diventare (talvolta più per convenzione sociale e opportunismo) paladini della non violenza, moralisti. Matt questo tipo di pentimento non lo riconosce, non crede nella conversione di chi dopo aver tanto picchiato cancella il proprio passato; come dice lui: non si può cambiare parrocchia così, facendo finta di non aver mai fatto male a nessuno. Ciò non significa che Matt non abbia mai maturato pentimenti privati e che non si sia mai vergognato di aver fatto magari troppo male a qualche malcapitato. Significa che oggi è diventato l’uomo che è anche per quello che è stato, per cui non può rinnegarlo”.

Sono passati 40 anni dagli anni 80 e i giovani di oggi sono diversi da quelli di ieri. Però la loro vulnerabilità – dovuta a un naturale processo di crescita- è sempre la stessa. Oggi i giovani sono alle prese con il Covid. Com’è la situazione in Ticino? Trova che i giovani siano arrabbiati come i picchiatori del suo libro oppure che siano piuttosto depressi?

“Temo che i giovani di oggi non siano diversi da quelli di ieri, e quelli di ieri erano simili a quelli dell’altroieri. Io ho descritto solo il decennio che mi corrisponde per età, il decennio peraltro ritenuto di questi tempi come quello “mitico” (basta guardare i telefilm che hanno rifatto, Magnum Pi, McGiver, Hazzard…). Per dire, di recente, qui in Ticino, una megarissa ha coinvolto una ventina di giovani (proveniente da un raduno di circa ottocento individui, ritrovatisi nottetempo e abusivamente alla Foce del Cassarate di Lugano), che si sono messi infine a scagliare bottiglie anche contro la polizia. Continuo a faticare con le generalizzazioni, ma forse potrei azzardare un’ipotesi: quelli che tendevano alla depressione magari sono più depressi, quelli più agitati forse sono più nervosi, quelli più aggressivi forse sono più arrabbiati. Quelli timidi che amano stare a casa, così come quelli che venivano bullizzati magari sono felicissimi. Io sarei stata felicissima, credo”.

Che messaggio si sente di mandare ai giovani di oggi?

“Quando mi invitano a parlare in una scuola media, anche senza volerlo, a un certo punto mi viene da chiedere quali sono i loro sogni. Ci sono sempre meno giovani capaci di sognare. E dunque di creare immaginazioni. Le immaginazioni possono salvare: sono sempre meglio della realtà. Direi: trovate un sogno e inseguitelo. Un bel sogno. Non il sogno di altri. Non i soliti sogni. Il vostro sogno. E inseguitelo”.

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