Qualcosa sta cambiando: sono sempre di più le università dove lo sport agonistico da passatempo è divenuto parte integrante della formazione accademica e personale.
Da sempre, negli Stati Uniti “fare sport” è un modo per andare all’università, per pagare le tasse universitarie. Le borse di studio per studenti e studentesse che eccellono per meriti sportivi sono generose e uno strumento per attrarre alunni così come fondi per la ricerca. In Australia e in Inghilterra lo sport pervade i campus. Durante la refresh week, la settimana d’accoglienza ad inizio dell’anno accademico, la prima cosa che viene chiesto agli alunni delle università anglofone è se si voglia fare uno sport, e quale.
Negli ultimi anni, la dignità accademica dello sport si è diffusa: dalla Cina, alla Corea, in Russia e negli Stati dell’Ex blocco sovietico, e nel Vecchio Continente, finalmente. In Francia, in Germania e in Italia, dove la neonata istituzione UniSportItalia cerca di promuovere le attività sportive in contesti accademici, lavorando contro la concezione, ancora spesso radicata, che vuole l’attività agonistica essere inconciliabile con lo studio.
Anche in Svizzera, dal 2015, Swiss University Sports collabora con Swiss Olympic per migliorare la compatibilità tra sport e studi di alto livello. L’obiettivo è duplice: far sì che l’impegno sportivo non comprometta le prestazioni scolastiche ma, al contempo, orari di studi poco flessibili non ostacolino l’agonismo sportivo. Oggi Swiss University Sports comprende 15 organizzazioni sportive universitarie locali (HSO) con un totale di 200.000 studenti membri. L’associazione è responsabile anche per la selezione degli atleti per i Campionati del Mondo Studenteschi e le Universiadi. Quest’ultime, giunte alla loro 30esima edizione, si svolgono tra il 3 e il 14 luglio a Napoli; mentre da poco si sono conclusi i Campionati Nazionali Universitari (CNU), tenutisi a L’Aquila il 17-26 maggio scorso.
“Negli ultimi 5-10 anni abbiamo assistito ad una positiva trasformazione che vuole render possibile studiare e svolgere attività agonistica. Al tempo stesso oggi si corre il rischio che lo sport negli atenei diventi un business, mentre l’attività agonistica dovrebbe essere valorizzata come momento e strumento di formazione personale”, spiega Maura Gnecchi, ex-velocista della Nazionale Italiana, che nel 1974 arrivò prima classificata nei 100 metri piani dei CNU a Firenze. Piacentina, Maura Gnecchi divideva il suo tempo tra l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, dove studiava, e il campo d’allenamento della Società Libertas, nel piacentino. “Era anni, quelli, segnati da carenze di infrastrutture e di sostegno allo sport in ambito accademico, almeno fino a quando non arrivavano risultati importanti. E comunque, nemmeno di fronte al successo, diventava lo sport un business.”
Oggi, la scelta sportiva si va moltiplicando, rispondendo a diverse necessità, interessi, talenti. “E questo è un bene”, dice Maura, “Io iniziai giovanissima con il salto in lungo, arrivando nel 1969 nella finale dei Giochi della Gioventù a Roma. Poi scelsi di correre, perché la corsa mi consentiva di scaricarmi psicologicamente d’un colpo. Rimane il fatto, che oggi come ieri, per emergere ci vogliono innate capacità, certo, ma anche una volontà a dir poco ferrea e spirito di sacrificio. Anche per questo, lo sport va incoraggiato. Fare sport favorisce lo sviluppo di competenze trasversali, quali darsi degli obiettivi, mantenere la concentrazione, saper accettare la sconfitta e le decisioni altrui, lavorare in gruppo (per alcuni sport), cadere e rialzarsi.”