Sua Eccellenza, la pizza

di Giorgio Marini

C’è poco da dire: la pizza resta il piatto preferito da almeno il 65% degli italiani, come segnala una ricerca curata da Nomisma per UniSalute e articolata in abitudini alimentari, attività fisica e prevenzione. Batte persino pasta e grigliate per quanto riguarda la felicità che regala, alle papille e allo spirito, secondo quanto rileva un’indagine Doxa\Deliveroo. Fragrante, saporita e digeribile, realizzata con materie prime genuine e di pregio, è uno dei pilastri della Dieta Mediterranea al pari di olio di oliva extravergine e prodotti tipici regionali. La mangiamo sempre più spesso. Siamo disposti a mettere mano al portafoglio pur di avere qualità, oltre al gusto. Apprezziamo gli abbinamenti classici, ma ci piace anche cambiare e provare diverse declinazioni e accostamenti, così come formati e tipologie. Ma la regina resta sempre lei, la tonda Margherita, la più amata dagli italiani, ma anche la più famosa al mondo. Una delle ragioni del suo successo planetario è la sua versatilità: la ricetta di base, semplice ed economica, si presta a un’infinità di variazioni, ideali per i palati più semplici così come quelli più raffinati. E in qualunque versione favorisce la convivialità.

IL LEGAME CON SANT’ANTONIO

A partire dal 2018, il 17 gennaio è stato eletto come la Giornata Mondiale della Pizza. In Campania, a dire il vero, i festeggiamenti erano cominciati parecchio tempo prima. Sant’Antonio Abate, a cui è dedicato questo giorno, era il capostipite dei monaci cristiani e tradizionalmente associato all’elemento del fuoco, tanto da essere considerato anche protettore dei pompieri, dei panettieri e degli animali. In onore di questa figura cristiana sono sempre state organizzate delle celebrazioni significative a Napoli, come l’accensione dei “ceppi”, “fucaroni” o “focazzi”, grandi falò purificatori con cui gli abitanti erano soliti dare l’addio all’anno appena trascorso, predisponendosi ad accogliere quello nuovo. Ma nella capitale partenopea, fin dall’inizio del Novecento, il 17 gennaio era anche la “giornata dei pizzaioli” che, per l’occasione, finivano di lavorare a mezzogiorno per poter trascorrere pomeriggio e sera con i propri parenti. Lo ha ricordato qualche anno fa Antonio Pace, presidente dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, raccontando un piccolo aneddoto: “Per festeggiare la ricorrenza le famiglie delle pizzerie napoletane facevano spesso una gita fuori porta e si fermavano a mangiare in un ristorante di Capodimonte, Colli Aminei; poi, alla fine del pasto, onoravano Sant’Antonio (“Sant’Antuono”) accendendo un falò. L’usanza si è protratta fino al 1924-25, andando a scemare dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

BENE IMMATERIALE DELL’UMANITÀ

Alla fine del 2017 “l’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano” è stata riconosciuta dall’Unesco come parte del patrimonio culturale dell’umanità, trasmesso di generazione in generazione e continuamente ricreato, in grado di fornire alla comunità un senso di identità e continuità e di promuovere il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana, secondo i criteri previsti dalla Convenzione Unesco del 2003. Una pratica culinaria, quella dell’arte della pizza, che è andata così ad aggiungersi ad altri nostri beni immateriali come la Dieta Mediterranea, la falconeria e l’opera dei pupi, e che comprende varie fasi, tra le quali la preparazione dell’impasto, un movimento rotatorio fatto dal pizzaiolo e la cottura nel forno a legna. Secondo un’indagine di Cna agroalimentare, il riconoscimento UNESCO dell’Arte del Pizzaiuolo Napoletano ha contribuito non poco a rafforzare il settore, che prima del Covid, poteva contare su un giro d’affari di 15 miliardi. Negli ultimi due anni a causa della pandemia il mondo della ristorazione e del cibo nel suo complesso è cambiato notevolmente, tra le impennate delle piattaforme di delivery e il successo del fatto-in-casa. Tutto ciò ha riguardato anche la panificazione e la pizza nello specifico. Ma il settore sta vivendo già da almeno due decenni – al netto del Coronavirus – il suo momento di rinascita, così come tutta la cucina artigianale (secondo quanto è emerso da una ricerca dell’azienda Galbani, riportata da “Il Gambero Rosso”, nel 2020, a inizio pandemia, le pizze cucinate in casa sono passate da una media di 1,9 a 2,9 al mese).

LE ORIGINI NAPOLETANE

Come viene spiegato dai dotti della prestigiosa enciclopedia Treccani, il termine che designa questo prelibato ed eccellente piatto simbolo del tricolore è attestato per la prima volta in un contratto di locazione siglato in volgare nel 997 a Gaeta. L’origine etimologica della parola deriva forse dall’alto-tedesco antico bizzo, pizzo “boccone, pezzo di pane, focaccia” o forse dall’arabo pita o pitta: si trattava allora di una focaccia bianca e schiacciata che si mangiava per le strade piegata a metà. Successivamente si arricchì di olio, acciughe e formaggio. Solo dopo la scoperta delle Americhe fu importato in Europa – e si diffuse grazie al clima mite – il pomodoro. Fu nel XVIII secolo che fu creata la Marinara. Un documento del 21 luglio 1792, inoltre, dimostra l’esistenza di una vera e propria pizzeria: il pizzaiolo Giuseppe Sorrentino aveva ottenuto una licenza, rilasciata dal Ministero della Polizia Generale, per cuocere le pizze nella bottega che egli aveva preso in affitto nel borgo del Loreto, a Napoli. Lo scrittore e intellettuale Alexandre Dumas padre aveva vissuto a Napoli nel 1835. E aveva raccontato: “A prima vista la pizza sembra un cibo semplice: sottoposta a esame, apparirà un cibo complicato. La pizza è: All’olio; Al lardo; Alla sugna; Al formaggio; Al pomodoro; Ai pesciolini. È il termometro gastronomico del mercato: aumenta o diminuisce il prezzo secondo il corso degli ingredienti suddetti, secondo l’abbondanza o la carestia dell’annata”. Il primo a diventare celebre fu Domenico Testa, che a Napoli preparò la pizza per la regina del Regno delle Due Sicilie nella prima metà del XIX secolo. Quando, nell’estate del 1889, il re d’Italia Umberto I e la regina Margherita di Savoia arrivarono a Napoli per le vacanze, vollero provare anche loro la decantata specialità locale. A corte furono chiamati don Raffaele Esposito e sua moglie Rosa Brandi, titolari della pizzeria Pietro il Pizzaiolo, alla salita Sant’Anna di Palazzo. Don Raffaele preparò tre pizze: due tradizionali, la terza farcita con mozzarella (il bianco del latticino si univa, dunque, al rosso del pomodoro e al verde del basilico, rievocando i colori della bandiera tricolore).  I reali apprezzarono molto, tanto che il giorno dopo la nuova “pizza Margherita” era già sui banchi della pizzeria dei signori Esposito.

CONTEMPORANEA E GOURMET

E arriviamo ai nostri giorni. Negli ultimi due decenni del nostro secolo si sono affermate le cosiddette pizze gourmet, più costose di quelle tradizionali, caratterizzate da attenzione e ricerca per quanto riguarda impasti e ingredienti.  Ma quand’è che una pizza può essere definita gourmet? L’esperto e giornalista Luciano Pignataro ha fatto chiarezza sul suo blog, indicando come elementi fondamentali “il ripensamento dei prodotti sulla base della esperienza e la conoscenza dell’effetto di cottura”. Ha sottolineato, in particolare, Pignataro: “Il risultato finale deve essere un equilibrio tra la componente panosa e il resto, un equilibrio che deve migliorare l’una e l’altra altrimenti si è fatta una pizza inutile, a volte caricaturale, a volte infantile. Sicuramente buona, ma inutile. L’uso di materie prime di eccellenza non è il punto di arrivo, ma la partenza”. Del resto anche la classica e “regale” Margherita fu frutto, a suo tempo, di un’innovazione sperimentale che fu premiata nell’immediato e nei secoli a venire. E tutt’ora continua a esserlo.

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