FAVOLACCE: INTERVISTA AL REGISTA FABIO D’INNOCENZO
di Dario Furlani
È un film che, causa COVID, è passato in sordina davanti al grande pubblico e non ha avuto l’onore di comparire nelle sale cinematografiche. In compenso la critica lo ha notato, eccome: a Berlino, all’International Film Festival, ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura, mentre ha fatto man bassa di Nastri d’Argento, il più antico premio cinematografico italiano: premi per il miglior film, la migliore sceneggiatura, la migliore fotografia, i migliori costumi e la migliore produzione. La pellicola in questione è Favolacce dei fratelli D’Innocenzo che hanno diretto un ricco cast in cui spicca Elio Giordano, vincitore a Berlino del premio per il migliore attore per “Volevo Nascondermi”.
Al Zürich Film Festival, Favolacce non era in concorso ma è stato molto apprezzato anche qui dalla critica.
La trama è la seguente: siamo a Spinaceto, nella periferia romana durante una calda e assolata estate. In un sonnacchioso isolato di villette borghesi apparentemente perfette e ordinate, vivono famiglie apparentemente equilibrate e felici. Tutti gli abitanti vivono però in un costante stato di disagio che nascondono a tutti o, perlomeno, a chiunque sia all’esterno del nucleo familiare. Tra asettiche routine e annoiate attività, si sviluppa un malessere sempre più incontenibile che erutterà impetuosamente.
Incontro virtualmente Fabio D’Innocenzo da una stanza di un hotel di Zurigo, tramite uno dei programmi che tanti hanno imparato ad usare durante la quarantena. Suo fratello Damiano non è presente, probabilmente occupato a seguire uno dei progetti che i due poliedrici gemelli (registi, sceneggiatori, poeti e fotografi) stanno portando avanti. Lui è connesso da Roma, in giacca grigia e capelli rigorosamente scompigliati. Mi parla con una voce vagamente metallica a causa del collegamento streaming, che però non riesce a intaccare la parlantina eloquente.
Com’è nato il film?
La sceneggiatura l’abbiamo scritta quando avevamo 19 anni, quando eravamo alle nostre prime esperienze di scrittura. La nostra famiglia non proviene dal cinema, viene dal mare; nostro padre era un pescatore e quindi noi non avevamo la velleità di riuscire a fare cinema, non sapevamo neanche cosa significasse farlo. Però avevamo una grande esigenza comunicativa che esprimevamo con il disegno e il fumetto. In seguito, abbiamo deciso di scrivere questo film per manifestare un nostro malessere. Perché questo film nasce e si basa sulla rabbia, il rifiuto del nostro tempo e di alcuni codici comportamentali che spesso adottiamo nostro malgrado, semplicemente perché siamo abituati a farlo.
Ci è sempre stato molto a cuore ‘questo’ terribile modo di ascoltare l’identità maschile e l’identità sessuale ci stava molto a cuore.
Ci sembrava un’ottima vendetta verso quello che avevamo vissuto come italiani sotto il governo di Berlusconi. Questa rabbia ci ha permesso di scrivere una storia che fosse arrabbiata ma che avesse un sentimento frutto dei nostri tempi e della nostra società. Un sentimento che si esprimesse in silenzio, come fanno i bambini nel film, sfogando questa ribellione quasi educatamente e in modo igienico.
Hai parlato di una formazione distante dal mondo del cinema, come si è sviluppato allora questo amore nei confronti della Settima Arte?
Noi siamo nati a Tor Bella Monaca, in una periferia molto complicata. Ti puoi genuflettere a quelli che sono gli stereotipi e i codici comportamentali del posto oppure puoi scegliere di rendere il mondo interiore più forte di quello esteriore. Quindi eravamo dei piccoli nerd. Mi ricordo che quando avevamo 12 o 13 anni iniziammo a leggere tantissima letteratura americana e queste letture ci portavano in una dimensione molto distante da quello che vivevamo per strada. Questa contrapposizione tra quello che leggevamo e quello che vedevamo rappresentava un dualismo molto più importante, quello tra ordine e disordine. E da lì ci siamo appassionati alle storie. Che una storia fosse in forma scritta o audiovisiva per noi aveva differenza e divoravamo tutto quello che potevamo guardare, scaricando i film sul computer, dato che non era possibile guardarli in altro modo. E quindi ci siamo innamorati di un’arte che consideriamo la più democratica. Perché, quando si scrive, la parola ti costringe comunque a una puntualità che quando viene poi assorbita dal lettore è un po’ come una sentenza. Il cinema invece si sviluppa come un’arte essenzialmente non verbale in cui il punto di vista di chi guarda è spesso anche più importante del film stesso.
Quali consideri le tue maggiori influenze giovanili?
Ci sono sicuramente Piero Chiara, Pier Paolo Pasolini e Gianni Rodari. Per quanto riguarda Favolacce che è più metaforico e simbolico i riferimenti sono Dostoevskij, Kafka e c’è tantissimo Ibsen.
La pellicola è stata distribuita inizialmente in streaming a causa della pandemia. Come vi siete sentiti a non vedere il film proiettato al cinema?
Estraniati. Però, come ho detto prima, da giovani io e Damiano abbiamo fruito il Cinema, il grandissimo Cinema sul computer. Quindi in realtà per noi il contenitore non sarà mai più grande del contenuto e comunque se il film è scritto bene e ti crea un aggancio emotivo tu entri. A prescindere dal mezzo. Il cinema è più un’ esperienza mentre lo streaming è più una consuetudine. Favolacce, però, è concepito per il cinema ed è stata questa la grande difficoltà. Quella di rinunciare a qualcosa che avevamo stabilito come un caposaldo di un film pensato per il grande schermo. Avremmo fatto un film con meno budget se avessimo saputo che sarebbe stato visto sul piccolo schermo.
Siete alla seconda opera e se con ‘La terra dell’abbastanza’ vi siete fatti notare, con ‘Favolacce’ siete esplosi. Avete quindi il campo spianato per un progetto più ambizioso, magari anche con l’estero.
Innanzitutto, bisogna definire estero. Noi cerchiamo di far arrivare In Italia quello che c’è di positivo all’estero come modo di lavorare. Quello che amiamo ad esempio del cinema americano è di basarsi su una grande impronta autoriale e contemporaneamente collaborare con un’industria. Questo è quello che secondo noi permette di creare una generazione di grandi autori. Qui in Italia ci sono delle eccezioni, dei grandi film che nascono dal niente senza però avere una continuità. Nel nostro modo di fare cinema c’è un forte senso di continuità. Il cinema è come un muscolo che si allena, per imparare devi farlo. Il terzo film è molto molto più ambizioso quindi la paura è grande ma allo stesso tempo c’è la gioia di tornare al lavoro.
Scrivete e dirigete i film assieme. Quando scrivete o siete sul set avete una sinergia?
Noi prima che fratelli siamo gemelli. Percepiamo tutto allo stesso modo e allo stesso momento, raramente siamo in disaccordo su qualcosa. Questo però può essere una complicazione nella vita, siamo ad esempio entrambi attratti dalle stesse ragazze e questo può essere un problemaccio. Nel cinema invece è molto redditizio e molto interessante, è anche terapeutico quando scriviamo dato che stiamo molto tempo assieme. Adesso abbiamo le nostre vite e viviamo in case diverse, quindi tornare insieme a scrivere ci riporta a quando avevamo 19 anni e vivevamo assieme e ci scannavamo tra di noi. Per me è importante ricordarci da dove veniamo. I nostri film e anche quelli che arriveranno parlano e parleranno sempre di rapporti familiari perché da noi il sangue è molto importante, è qualcosa che da una parte ci guida e che dall’altra ci sconfigge e ci mette con le spalle al muro.
Se dovessi scegliere solo di scrivere o solo di dirigere cosa sceglieresti?
Immagino la scrittura. Perché quando scriviamo è come se tutto sia già fatto e finito, quando andiamo sul set cerchiamo di eseguire quello che era già stato pensato. Quello che è stato scritto è per noi qualcosa di preciso e riconoscibile e per noi è quello e può essere solo quello. Quello che facciamo sul set è solo l’atto di avvicinare la cosa che avevamo immaginato a quello che stiamo creando. Quando giriamo è come se avessimo due monitor. In uno c’è quello che stiamo registrando, nell’altro quello che c’è nella nostra testa.