Un passo oltre lo stereotipo, ai tempi dell’isolamento

In un momento di isolamento e di una nuova prospettiva sul mondo della comunicazione e dell’intrattenimento di massa, si può trovare il tempo per cambiare certi canoni spesso blasonati.

Non potendo, per ovvi motivi, seguire eventi o concerti e nemmeno vedere film al cinema, mi sono da ormai un mese passato, tuffato nel mondo delle proposte online, spulciando un po’ tutti gli archivi multimediali che, ahimé, hanno aggravato la mia insonnia galoppante.
Disagio da quarantena a parte, sono passato dalle visioni delle biblioteche online canadesi (tra le migliori al mondo) fino al Netflix locale perché va bene tutto, ma ora più che mai si è solidali con la nazione anche attraverso le proposte più semplici.

Ho avuto la fortuna di vedere un documentario diretto dal famoso cantautore canadese Neil Diamond. Il titolo è Reel Injun ed è una vera perla perché racconta con fredda verità la rappresentazione della cultura nativa americana nell’industria di Hollywood, non solo attraverso le pellicole citate, ma entrando nel dettaglio di contratti e truffe a danno di comparse, attori e proprietari terrieri.

Lo sconfinato universo dei western, gli indiani e i cowboy, il mondo selvaggio di poveri scemi che si coprivano con le penne e tiravano frecce pregando i bisonti. Barbari che rapivano le donne e che i veri duri dovevano tenere alla larga dalla loro avventura… quella del selvaggio west. Ecco la lente di una dei fenomeni culturali più stereotipati e vergognosi, nonché universalmente accettati della storia dell’intrattenimento. Non solo il cinema infatti, ma anche parchi a tema, trasmissioni e merchandising. Diamond è un attivista essendo lui stesso nativo e comunque questo documentario è difficilissimo da trovare. Molto è stato fatto per cambiare un po’ le cose, il lavoro di Diamond si inserisce all’interno di un difficile movimento di resistenza per il mantenimento di questa dignità culturale.

Poi ho avuto modo di guardare anche Irishman, l’ultimo lavoro di Martin Scorsese proprio sul Netflix. I bravi ragazzi al completo, i cumpà. Ci sono Robert de Niro, Joe Pesci e Al Pacino. Si parla di Jimmy Hoffa, si parla di mafia e omicidi, un po’ come sempre. Del resto è lo stile di Scorsese e quelli sono i suoi bravi ragazzi. Siamo cresciuti con questi miti e ora come ora non capisco perché. Penso a De Niro e a Joe Pesci che sono ottimi attori diventati famosi per ruoli importanti che hanno creato un genere: mafia movie. Uno degli aspetti più brutti della nostra cultura, ma anche una forma stereotipata di criminalità che sicuramente ha avuto la sua presenza storica e reale nel DNA di entrambe le nazioni (quella italiana e quella americana), ma che ha assunto una mitizzazione che forse possiamo superare.

Vedere ora Irishman, con gli occhi di adesso, mi sembra vecchio e passato, così come vedere l’esaltazione sterile della mafia e della camorra nel cinema e nelle serie televisive. In un momento come questo, forse, dove i confini ci sembrano così fragili e i concetti di nazione e cultura sono messi molto in crisi da una epidemia universale, ci stiamo preparando a superare certi schemi comunicativi, per rielaborarne di nuovi. Forse saremo in grado di andare oltre il giapponese samurai che mangia il sushi, il cinese esperto di tecnologia e il brasiliano che balla la samba. Forse anche noi che apparteniamo alla cultura italiana riusciremo ad archiviare e a ridimensionare una eredità che molti di noi si stanno sforzando di superare, che ci vede associati solitamente a una figura maschile, patriarcale, legato alla criminalità organizzata, super violento e maschilista. Con origini rigorosamente meridionali, che spesso vengono usate a mo’ di scusa per certe reazioni passionali. Come sparare alla gente, picchiare una donna o fare casino. I miei sono pensieri semplici e in libertà, figli di un momento storico davvero singolare che ci porterà a raccontare storie diverse, con personaggi diversi e miti diversi.

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