Un uomo diventato simbolo, una battaglia solitaria contro il crimine

IL 3 SETTEMBRE 1982 LA MAFIA UCCIDEVA IL GENERALE CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

di Cristina Penco

Successi e riconoscimenti alternati a sconfitte, amarezze e isolamento. Sono tante le vette, e altrettanti gli abissi, che hanno segnato la vicenda umana e professionale del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fu ucciso 40 anni fa il 3 settembre 1982 a Palermo, vittima di un agguato mafioso con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Per almeno due importanti decenni della storia italiana, a partire dalla fine degli anni 60, Dalla Chiesa è stato tra i protagonisti della lotta al banditismo, al terrorismo e alla criminalità mafiosa. «Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti», disse. Piemontese, nato a Saluzzo (Cuneo) nel 1920 da Romano Dalla Chiesa e da Maria Laura Bergonzi, Carlo Alberto entrò a 22 anni nell’Arma dei Carabinieri.

Inizialmente voleva fare l’avvocato. Decise poi di fare un’altra scelta di vita, frutto di un’educazione votata al senso del dovere e all’amor di patria: suo padre, di origine emiliana come la madre, era un ufficiale dei Carabinieri che nel settembre del 1943, subito dopo l’armistizio firmato da Pietro Badoglio, aveva guidato il Comando dei Carabinieri Reali dell’Italia meridionale e poi, fino al giugno del 1945, era stato capo di Stato maggiore del Comando Arma Carabinieri dell’Italia liberata. Romano aveva chiuso la carriera nel 1955, in qualità di Vice Comandante Generale dell’Arma. Il figlio Carlo Alberto pensò di conquistarsi tutto sul campo, passo dopo passo, maturando numerose e significative esperienze nella sicurezza e nell’investigazione. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu stato destinato al comando della caserma di San Benedetto del Tronto. Dopo l’8 settembre cominciò a collaborare con la Resistenza marchigiana. Nel luglio del 1946 sposò Dora Fabbo, anche lei figlia di un ufficiale dei Carabinieri, Ferdinando. I due si erano conosciuti, giovanissimi, prima del conflitto, a Bari, dove anche il padre di Dora era di stanza. Nel capoluogo pugliese Carlo Alberto conseguì una prima laurea in Giurisprudenza e, successivamente, un secondo titolo in Scienze Politiche.

Contro il banditismo

Il primo incarico di Dalla Chiesa fu in Campania, dove si ritrovò alle prese con il bandito Giuseppe La Marca. A Casoria, nel 1947, nacque la prima figlia, Rita, che sarebbe diventata, in seguito, giornalista e presentatrice televisiva. Arrivarono anche Fernando, nel 1949, e Simona Maria, nel 1952, entrambi futuri esponenti del mondo della politica italiana. Vennero tutti e due alla luce a Firenze, dove Dalla Chiesa, tra il 1948 e il 1949, fu destinato al comando della Compagnia esterna. Promosso Capitano, chiese il trasferimento a Corleone (Palermo) ed entrò a far parte delle Forze di Repressione del Banditismo del Generale Luca, impegnate attivamente a combattere le bande guidate da Salvatore Giuliano. Per gli importanti risultati ottenuti, Dalla Chiesa fu decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare. Nel 1966 tornò di nuovo in Sicilia, col grado di Colonnello, per dirigere la Legione Carabinieri di Palermo. In occasione del terremoto del Belice, nel 1968, in mancanza, all’epoca, della protezione civile, fu lui a organizzare i soccorsi. In segno di gratitudine i comuni di Gibellina e Montevago gli conferirono la cittadinanza onoraria.

Lotta alle Brigate Rosse e a Cosa Nostra

Sempre in questo periodo il generale dovette occuparsi anche di indagini delicate e complesse come la scomparsa del giornalista Mauro de Mauro – per cui collaborò con la Squadra Mobile diretta da Boris Giuliano – la strage di Viale Lazio, cruento regolamento di conti tra cosche, e l’omicidio del Procuratore capo di Palermo, Pietro Scaglione. Dalla Chiesa, inoltre, redasse il rapporto dei 114, una mappa dei nuovi e vecchi capiclan siciliani, in cui, per la prima volta, fecero la loro comparsa i nomi di coloro che sarebbero poi tornati ripetutamente, nella cronaca nera, allora ancora sconosciuti ai più: Frank Coppola, i cugini Greco, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti. Promosso Generale di Brigata nel 1973, Dalla Chiesa assunse il comando della Regione Nord-Ovest, questa volta concentrato nello scontro con le Brigate Rosse: prima fu alla guida del Nucleo Speciale Antiterrorismo, poi, nel 1978, dopo la drammatica conclusione del sequestro di Aldo Moro, fu designato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo. Dopo il sequestro del giudice Sossi a Genova, il generale infiltrò nelle BR un suo uomo, Silvano Girotto, detto ‘’frate mitra’’, e arrestò i padri storici del brigatismo, tra cui Renato Curcio, Alberto Franceschini e Patrizio Peci. Il 19 febbraio 1978 Dalla Chiesa e i figli subirono un duro colpo nella vita privata: morì Dora Fabbo, stroncata da un infarto.

Il ritorno in Sicilia e l’agguato

Nel 1981 Carlo Alberto Dalla Chiesa venne nominato Vice Comandante Generale dei Carabinieri, lo stesso grado che aveva ricoperto suo padre. Si trattava, all’epoca, dell’incarico più alto per un ufficiale dei Carabinieri (il Comando Generale era, per legge, destinato ad un ufficiale dell’Esercito). Dopo l’assassinio mafioso di Pio La Torre, segretario regionale, in Sicilia, del Partito Comunista, nell’aprile 1982 Dalla Chiesa fu nominato Prefetto di Palermo. Per la terza volta si ritrovò nell’isola alle prese con l’arduo compito di contrastare la mafia, in quel momento guidata dai corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano. In una città in cui gli omicidi si susseguivano senza sosta, una parentesi felice rappresentarono le seconde nozze, il 10 luglio 1982, con Emanuela Setti Carraro, un’infermiera volontaria originaria di Borgosesia (Vercelli) che, dopo il matrimonio, si trasferì con il marito nel capoluogo siciliano. Nel frattempo Dalla Chiesa percepiva sempre più l’isolamento nel quale era stato relegato. Lo scrisse nel suo diario, come emerse successivamente, e lo rivelò al giornalista e scrittore Giorgio Bocca. Era stato nominato Prefetto, ma senza poteri speciali, quelli che, invece, gli erano stati assegnati nella lotta al terrorismo. Il che lo limitava molto nelle sue azioni investigative e non lo tutelava. Sempre nel corso dell’intervista rilasciata a Bocca, Dalla Chiesa illustrò la sua intuizione per togliere consensi a Cosa Nostra: “Sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla mafia il suo potere. Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”. Una visione innovativa e coraggiosa. Cento giorni dopo la nomina di Prefetto, il 3 settembre a Palermo, verso le ore 21, Dalla Chiesa e la consorte Setti Carraro erano in auto, diretti da villa Whitaker, sede della Prefettura, verso un ristorante del golfo di Mondello. La loro vettura A112 venne affiancata da una BMW dalla quale furono esplose trenta raffiche micidiali di kalashnikov che trucidarono il Generale e la moglie, che era alla guida. Dalla Chiesa fece in tempo ad abbracciarla un’ultima volta, nel disperato tentativo di proteggerla.  Contemporaneamente, una motocicletta affiancò l’auto di scorta guidata dall’agente Domenico Russo che, ferito gravemente, sarebbe morto in ospedale dieci giorni dopo la tragica sera dell’agguato. I mandanti della strage di via Carini, ordinata da Cosa Nostra, furono poi identificati nei capi mafia Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.

Le responsabilità dello Stato

Il giorno del funerale una grande folla di cittadini si riunì presso la Chiesa di San Domenico a Palermo esprimendo sgomento e indignazione contro le più alte cariche istituzionali della Penisola; solamente il Presidente della Repubblica di allora, Sandro Pertini, fu risparmiato dalla forte contestazione. È rimasta celebre l’omelia dell’arcivescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo, che durante le esequie pronunciò una frase riportata da Tito Livio: «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur», «Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata». Senza mezzi termini, dando voce a un sentimento collettivo, si accusava lo Stato di aver lasciato solo e senza protezione un uomo che dedicò la sua vita nella strenua difesa e nel rispetto del bene collettivo, nel nome dei valori della Repubblica italiana.

“Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”, aveva scritto un anonimo su un cartello, lasciato in via Isidoro Carini, poche ore dopo l’attentato. “Quel cittadino si sbagliava”, ha detto in occasione dell’anniversario della morte del Generale Dalla Chiesa, nel 2021, Maria Falcone: è la sorella del giudice Giovanni Falcone, a sua volta ucciso in un attentato mafioso, assieme alla moglie, anche lei magistrato, e alla sua scorta, il 23 maggio 1992 a Capaci (Palermo). “Il sacrificio del Generale non è stato vano: ha scosso le coscienze e spinto tanti altri esponenti delle istituzioni a proseguire lungo la strada da lui indicata”, ha sottolineato la docente e attivista.

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