Vivere insieme

Viandante, non c’è cammino, tutto passa e tutto resta, ma il nostro è un passare. Un passare battendo sentieri. Sentieri sopra il mare […] Viandante, sono le tue impronte. Il cammino, e niente più. Viandante, non c’è cammino. Il cammino, si fa andando. (Antonio Machado)

Inizio questa riflessione con l’aiuto del filosofo spagnolo Fernando Savater che in “Etica per un figlio” scrive: “Nessuno diventa umano da solo: ci facciamo umani gli uni con gli altri. Riceviamo l’umanità che è in noi per contagio: è una malattia mortale che non avremo mai contratto se non fosse stato per la vicinanza dei nostri simili. Ce l’hanno passata nel respiro, attraverso la parola, ma ancora prima attraverso lo sguardo: quando ancora siamo ben lungi dal saper leggere, leggiamo la nostra umanità negli occhi dei nostri genitori o di coloro che si prendono cura di noi in vece di loro. È uno sguardo che contiene amore, preoccupazione, rimprovero, burla: cioè significati. Uno sguardo che ci solleva dalla nostra naturale mancanza di significato per renderci umanamente significativi. Essendo, come uomini e come donne, il frutto di questo contagio sociale, a un primo sguardo è sorprendente il fatto che sopportiamo la nostra socialità con tanta inquietudine. Non saremo ciò che siamo, senza gli altri, ma ci pesa essere con gli altri.”

Come impariamo a vivere oggi?

Qualcuno può insegnarci a vivere oppure dobbiamo imparare attraverso le proprie esperienze con l’aiuto dei genitori prima, degli insegnanti dopo ma anche attraverso i libri e gli incontri che facciamo.

Vivere è un’avventura, scrive Edgar Morin nel suo libro “Insegnare a vivere”. Vivere è un’avventura che comporta in se stessa incertezze sempre rinnovate, con crisi personali e/o collettive. Noi non conosciamo in anticipo le nostre fortune o sfortune, viviamo in un’epoca di incertezze sui nostri futuri.

Continuamente siamo a confronto con l’Altro e continuamente abbiamo bisogno di essere compresi dall’Altro. Comprendere ed essere compresi è un bisogno di tutti.

Ma oggi ci viene insegnata la comprensione?

Nella filosofia e nella letteratura contemporanee sono molte le rimostranze contro l’onere che comporta vivere in società, le frustrazioni che derivano dalla nostra condizione sociale, nonché le misure che possiamo adottare per doverne soffrire il meno possibile. Nel suo dramma Porta chiusa, Sartre coniò una celebre sentenza, in seguito mille volte ripetuta: “L’inferno sono gli altri”.

Allora il paradiso sarebbe la solitudine e l’isolamento.

Le attuali società massificate tendono a spersonalizzare i rapporti umani, rendendoli frettolosi e burocratici.

Sono troppo pochi i cittadini che godono dei vantaggi della vita in comune e troppo numerosi quelli che soffrono la miseria e l’abbandono.

L’inferno sono gli altri?

Viviamo necessariamente nell’incomunicabilità?

Naturalmente, se per “comunicazione” intendiamo il fatto che gli altri debbano interpretarci alla perfezione, recependo tutto ciò che noi crediamo di esprimere, dimenticando che il primo requisito della buona comunicazione è proprio lo sforzo di capire colui da cui vogliamo essere capiti.

Per conoscere noi stessi, innanzitutto abbiamo bisogno di essere riconosciuti dai nostri simili. Per quanto il nostro rapporto con gli altri possa risultare, eventualmente, negativo, non sarà mai così irrimediabilmente distruttivo come lo sarebbe l’assenza totale di rapporto, ovvero il “non essere riconosciuti”.

Sin dall’antichità più remota si è cercato di organizzare la società umana in modo tale da garantire il massimo della concordia. Naturalmente per ottenerla, non possiamo confidare unicamente nell’istinto sociale della nostra specie, perché, pur facendoci sentire il bisogno della compagnia dei nostri simili, esso ci mette anche contro di loro. Le stesse ragioni che ci avvicinano agli altri, possono fare di essi i nostri nemici. Siamo esseri sociali perché assomigliamo moltissimo gli uni agli altri e più o meno tutti vogliamo, di solito le stesse cose essenziali: riconoscimento, compagnia, protezione, abbondanza, divertimento, sicurezza…. Ma ci assomigliamo a tal punto che spesso desideriamo le stesse cose (materiali e simboliche) e ce le litighiamo.

Spesso ci capita anche di desiderare certi beni solo perché li desiderano gli altri.

Dunque, ciò che ci unisce, ci mette anche gli uni contro gli altri: i nostri interessi.

La parola “interesse” viene dal latino “inter esse” , ciò che sta in mezzo, fra due persone o due gruppi: ma ciò che sta fra due persone, o due gruppi, serve a volte a unirli e, altre, a separarli e a renderli ostili fra loro. Talvolta avvicina chi è lontano, talvolta oppone chi è diverso.

Dunque, proprio l’indubbia “socievolezza” degli interessi umani fa sì che abbiamo bisogno di vivere in società, ma che, troppo spesso, la concordia sociale ci risulti impossibile.

Concludo questa riflessione con le parole di Edgar Morin il quale ci suggerisce di essere saggi, una nuova saggezza per comprendere che ogni vita personale è un’avventura inserita in un’avventura sociale, a sua volta inserita nell’avventura dell’umanità.

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