L’Italia, i giovani, le donne, il lavoro, i figli
Oltre numeri e statistiche, visioni miopi e ‘operazioni nostalgia’, c’è un paese che vuole e merita di (ri)fiorire. E una corretta informazione aiuta a trovare la strada più giusta
di Giovanna Guzzetti
Natalità, argomento del giorno. Allargando gli orizzonti sarebbe da concentrarsi su India e Cina. “Ma ci riguarda?”, potrebbe essere la prima obiezione. Assolutamente sì, in un mondo globalizzato (anche se ora tende a riscoprire le macroregioni) sì.
E non si tratta solo di un fatto numerico, non una classifica di cifre, o di parti: la perdita del primato da parte di Pechino porta con sé ben altri significati. Cominciamo dall’India. Arrivato a 1,428 miliardi di abitanti, il Paese dei Marajah non solo batte Pechino su questo terreno, ma scompagina la geografia economica.
New Dehli può contare su un bacino inesauribile di forza lavoro (a differenza della Cina): più dell’80 per cento della popolazione ha una età inferiore ai 50 anni; gli indiani in estrema povertà si sono ridotti drasticamente. Ciò nonostante, la disoccupazione rimane ancora alta – i posti di lavoro non sono cresciuti così tanto da assorbire l’offerta di lavoro – in particolare quella femminile, ma si punta sull’India al punto che qualcuno la considera la potenziale protagonista del secolo.

Bisognerà tenerne conto. Anche la Cina, all’inizio del suo boom, veniva vista ancora come il Paese del Milione, lontana da noi come ai tempi di Marco Polo: la storia ha dimostrato che ci eravamo sbagliati, e parecchio. Pechino -al di là delle mire espansionistiche, realizzate su Hong Kong, sbandierate e mai cessate su Taiwan- ha condizionato il pianeta in termini economici invadendolo con la sua merce, spesso irrispettosa dell’ambiente (e dei diritti dei lavoratori).
Ma il governo del Bel Paese, ormai ossessionato dall’idea di una italianità da preservare, anzi difendere, in palese contraddizione con gli albori della storia della penisola, in nome di una sorta di autarchia culturale si focalizza (solo) su quanto avviene all’interno dello Stivale.
Dall’avvio di questo esecutivo, che si era presentato con la Sovranità Alimentare associata all’Agricoltura e il Merito a braccetto con l’Istruzione, ci siamo abituati a un pensiero italocentrico.
Fabio Rampelli, deputato di FdI, partito di maggioranza, si è fatto paladino della lingua italiana e, per disincentivare l’uso di termini stranieri al posto dell’italiano (il forestierismo), ha presentato una proposta di legge in cui viene richiesto il pagamento di multe per i responsabili della pubblica amministrazione che eccedono in anglicismi. Le sanzioni invocate possono arrivare fino a 100.000 euro.
Il suo collega di partito, il ministro Urso, ci ha garantito che arricchirà l’offerta formativa della scuola secondaria superiore con l’introduzione del Liceo del Made in Italy, atteso a regime nel 2025. Siamo nello stesso paese dove, correva l’anno 1993, veniva istituito, anche in ossequio a Mastricht, il Liceo Classico Europeo. Triste assistere a tanta miopia…
Ma il palmares spetta al ministro per l’Agricoltura (e Sovranità Alimentare), Francesco Lollobrigida, per le scelte lessicali. In Italia il dibattito su sbarchi e migranti è davvero caldo: il tema è sì scottante, ma non può perdere di vista, al di là della solidarietà cui ogni paese sedicente avanzato dovrebbe attenersi, i principi del diritto internazionale e le varie dichiarazioni sui diritti dell’uomo.
Il first cognato d’Italia (la moglie è la sorella di Giorgia Meloni) ha tuonato contro la sostituzione etnica, ovvero il rimpiazzo che stranieri (leggi extracomunitari, migranti in primis) opererebbero a svantaggio della “pura razza, pardon etnia, italica”.
Il concetto, certo, è di quelli da far sì tremare le vene ai polsi ma Lollobrigida, per esprimerlo, ha elaborato una citazione – sul piano meramente lessicale – a dir poco raffinata. E qui casca l’asino!! Di originale nel “Lollobrigida pensiero” c’è davvero ben poco. Già in passato esponenti noti della destra italica (Meloni, Salvini) avevano fatto ricorso a questa dizione ma quel che spaventa è a chi si ispirino questi rappresentanti del popolo, rettifico della nazione.
Quello della sostituzione etnica è un mito neonazista caro ai suprematisti bianchi, tanto da essere il titolo del manifesto razzista di Brenton Tarrant, l’autore della strage di Christchurch, in Nuova Zelanda. Altro che svista per parlare di natalità.
Sostituzione etnica è la parola d’ordine di una delle teorie del complotto tipiche dell’estrema destra più violenta: il cosiddetto Piano Kalergi. Autore di Addio, Europa. Il Piano Kalergi, uscito nel 2005, è Gerd Honsik, neonazista austriaco condannato due volte per aver negato l’esistenza dell’Olocausto del popolo ebraico da parte della Germania nazista di Adolf Hitler.
Ne ha fatti di proseliti Honsik, a partire da quel Renaud Camus, autore Le Grand Remplacement, la grande sostituzione (che gli costò una sonora multa per incitamento all’odio razziale). È proprio lì che prende forma la teoria della sostituzione etnica come la conosciamo oggi.
E Kalergi? Rischia di fare la fine del principe di Condé di manzoniana memoria. Il conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, aristocratico austriaco-giapponese nato nel 1894, in effetti godrebbe del totale oblio se non fosse per i cospirazionisti di destra. Indicato come uno dei primi pensatori del progetto di un’Europa unita, fa parte della famiglia degli idealisti utopici che si opposero all’avanzata del fascismo e del nazionalismo, sostenendo l’integrazione e la pacificazione tra i popoli. In nessuno dei suoi scritti si parla mai di un piano per il genocidio dei bianchi o della sostituzione etnica con popoli non europei.
Eppure, con un’abile opera di manipolazione del reale (antesignana delle fake news), le sue idee antinaziste sono state strumentalizzate e stravolte da Honsik e Camus, agli inizi del 2000, per creare una delle teorie del complotto preferite dall’estrema destra e cavalcare la retorica contraria alle migrazioni. Tutto questo però viene tenuto sotto silenzio: la mancata informazione, al pari della religione, può fungere da oppio dei popoli…
Una premessa articolata per giungere al tema caro, in questo momento, al nostro Esecutivo. La natalità, che il sempre prodigo Lollobrigida vuole incentivare. Idea originale? Beh, non proprio, se ripensiamo al “Dio, patria e famiglia” di mussoliniana memoria.
Donne italiane fate più figli! Proprio per la patria, per arginare l’orda (e l’ondata) degli invasori. Non riceverete più la medaglia assegnata alle madri con almeno 7 figli a partire dal 1939 (nota altresì come la medaglia della coniglia, absit iniuria verbis) ma bonus e detrazioni.
Dichiarazioni di intenti anche pregevoli, che catturano ed abbagliano l’opinione pubblica ma che si scontrano con la applicazione pratica, oltre che con la copertura finanziaria.
Partendo da (più) lontano, assistiamo alla disparità che esiste fra Italia e Paesi Ocse in tema di spesa per le famiglie con figli. Noi spendiamo circa 1,4% del PIL contro una media Ocse del 2,2%. I genitori italiani che hanno un lavoro, hanno diritto a 11 mesi di congedo parentale retribuito di cui 5 mesi di maternità generalmente retribuiti al 100% dello stipendio, ma la retribuzione è bassa (30%) per il resto del congedo.
Già la partenza è in salita per le giovani generazioni: progetti di vita, coppia, genitorialità rischiano di svanire a causa di faticose situazioni economiche per le quali l’arrivo di un figlio rappresenta un ulteriore aggravio. Che la madre non lavori, per evidenti ragioni, o che la madre abbia una occupazione, per le criticità ed i costi legati alla cura del pargolo/i.
Certo, sentir parlare di detrazioni pari a 10 mila euro per ogni figlio può far venire l’acquolina in bocca, ma a chi gioverebbe, soprattutto se i piccoli eredi sono più di uno? Ai nuclei più avvantaggiati, che hanno la sufficiente capienza fiscale se il meccanismo rimarrà come è stato presentato (sommariamente).
Il punto, invece, è il lavoro, correttamente retribuito, dei genitori, delle mamme che devono davvero raggiungere, in tema di occupazione, gli obiettivi di una ormai canuta Agenda di Lisbona. Almeno il 60 % delle donne in età da lavoro sono impiegate e titolari di un loro reddito. Ma siamo ancora ben lontani…
Un paese che progredisce deve possedere nuova linfa (nuovi nati), ridurre i figli unici e veder fiorire il lavoro delle donne. Motore della crescita demografica ed economica, a cui affiancare maggiori servizi per la cura, di bambini e anziani, per agevolare il lavoro femminile ed i bilanci familiari. Oltre che il prodotto interno lordo nazionale. Al quale però, cari ministri autarchici, contribuiranno sempre di più anche gli stranieri, quelli che stigmatizzate chiamandoli immigrati, facendone di ogni erba un fascio.
Non li fermeranno le minacce reiterate del blocco navale né l’abolizione sostanziale della protezione sociale. E se avrete la lucidità di osservare con animo sgombro le dinamiche di grandi Paesi che definiamo amici (Francia, Germania, Uk, Usa, per citare i principali) dovrete riconoscere il grande contributo di coloro che arrivano da oltre confine. Per sostenere le nostre industrie in difetto di manovalanza, per aiutare le nostre famiglie a corto di baby-sitter, badanti, collaboratrici domestici: altro che autarchia. Vi suggerisco la visione di The Help, con le superlative attrici di colore Viola Davis ed Octavia Spencer. Non è solo un film. Meditate, italiani, meditate.